Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Santanelli e il fazzoletto di Merola
L’importanza dei gesti nel teatro l’aveva capita bene «’o zappatore»: citava Brecht senza conoscerlo
Stavolta — nel racconto «Pullecenella e la gestualità», pubblicato ieri — Manlio Santanelli si è dato all’autobiografia. E qualcuno potrebbe obiettarmi che sempre un artista (sia che scriva o dipinga o desti suoni musicali) filtra la sua opera attraverso la propria vita.
Mi si potrebbe obiettare, in breve, che ogni artista parla sempre e soltanto di sé. Ma nel racconto (o, meglio, nella riflessione) di cui ci occupiamo Santanelli fa qualcosa di più, e di più specifico: si riferisce, attraverso l’analisi scherzosa dell’accentuata gestualità dei napoletani, alla storia della propria drammaturgia, una drammaturgia che, lo sappiamo, è per suo conto assai meno scherzosa, anche quando indossa la maschera del sorriso.
Qui Santanelli dice: «’O navufraggio, chesta è ‘a primma paura nosta. Nuje napulitane simmo tutte quante navufraghi, e sperammo sempe ‘e vedé ‘na varca ca ce vene a salvà». E suppone che l’abitudine nostra di muovere continuamente e freneticamente le mani, dovunque e ognora, nasca per l’appunto dal disperato tentativo di attirare con i gesti — nell’imperversare di onde sempre più alte, che soffocano qualsiasi richiamo vocale — quell’ipotetico vascello che ci conduca «fuor del pelago a la riva».
È una metafora, naturalmente. Ed è la stessa metafora che si trova al centro di «Uscita di emergenza», la commedia che, insignita del Premio Idi nel 1979, l’anno successivo diede a Santanelli la notorietà sul piano nazionale e, ben presto, internazionale. Ricordate i due personaggi, Cirillo e Pacebbene, che ne sono protagonisti, uniti da un complesso rapporto sadomasochistico in una stanza che minaccia costantemente di crollare a causa del bradisismo.
A un certo punto Pacebbene osserva: «E po’ da ‘nu mumento a n’ato, punto e da capo!… Comme si ‘mpietto… eh, proprio accussì: comme si ‘mpietto a me ‘nu trave ‘e chiste accummencia a tuculia’!… Se ne vene… e dinto a niente se ne cade tutte cose!…». Ma non a caso Pacebbene è un ex sagrestano e Cirillo un ex suggeritore teatrale: entrambi, cioè, svolgevanel no in precedenza delle professioni riferite a un rito, rispettivamente la Messa e il Teatro; e proprio il rito rappresenta il tema portante dell’intero teatro di Santanelli, il rito come mezzo per esorcizzare una realtà insopportabile o ritenuta tale.
Ebbene, non sono forse proprio i gesti lo strumento espressivo principale della ritualità? Pensiamo, in proposito, a un altro testo assai significativo di Santanelli, «Il baciamano». La sua battutachiave recita, giusto: «Il baciamano è un rito complesso, una vera e propria cerimonia». Sicché la diversità radicale che connota i due personaggi in campo — una lazzara sanfedista dal nome emblematico di Janara e un gentiluomo giacobino portatole incaprettato dal marito acciocché lei lo uccida, lo cucini e lo ammannisca come pranzo per la pe- rennemente affamata truppa familiare — si annulla in un gesto, appunto il baciamano, che rimanda alla Forma in cui tutti c’illudiamo di poter imprigionare il dolore e la degradazione della vita.
Siamo autorizzati, perciò, ad aggiungere un’altra ipotesi a quelle che Santanelli ha proposto nel suo racconto-riflessione: l’ipotesi che, in definitiva, il vero mare in cui i napoletani temono di naufragare sia costituito dall’impotenza e dalla falsità delle parole. Ancora non a caso, del resto, fra le tante nazioni che sono sbarcate a Napoli figura la Spagna, la Spagna che, attraverso Don Chisciotte, ha trasmesso il primo segnale della crisi decisiva determinatasi nell’età moderna, la frattura tra la realtà e, giusto, le parole. L’hidalgo della Mancia è, secondo la nota e acuta definizione di Foucault, «scrittura errante mondo in mezzo alla somiglianza delle cose». E dunque, la sua utopia è quella di voler ripristinare l’«antica intesa» per cui la scrittura era «la prosa del mondo» e le parole contrassegnavano le cose, il suo sogno quello che i segni del linguaggio riacquistino valore in sé e di per sé, oltre «la tenue finzione di ciò che rappresentano».
Forse, insomma, i napoletani ricorrono così spesso ai gesti perché con essi sostituiscono parole su cui sanno di non poter più contare. E chiamo come testimone a favore di quest’ipotesi un personaggio che, all’apparenza, non si sospetterebbe possa entrare in un simile discorso: Mario Merola.
Fu il grande rimpianto di Roberto De Simone, che lo avrebbe voluto in un suo spettacolo perché ne ammirava, per l’appunto, l’assoluta pregnanza del gesto. E per parte mia, racconto nel merito un episodio che riassume come meglio non si potrebbe tutto quanto detto sinora.
Quando venni assunto a «Il Mattino», mi assegnarono alla musica leggera. Ed ecco che, il 29 agosto dell’84, mi ritrovai nel cortile del Belvedere di San Leucio, dove Merola presentò «Felicissima sera», uno spettacolo che, coordinato da Nino Masiello, celebrava insieme un poeta straordinariamente emblematico come Libero Bovio e i venticinque anni d’attività del suo interprete ideale. E passarono, dunque, il rito d’amore, la malavita, la festa, la tradizione, la nostalgia, la morte. Con un codicillo: al termine dello spettacolo, il re della sceneggiata m’invitò a cena, noi due soli, perché, spiegò, a me solo doveva dire certe cose.
Mi portò in una trattoria di non so quale paese del Casertano. E lì — dopo qualche bicchiere di vino, con l’anima più leggera — snocciolò a modo suo quel che qui riordino, traduco e sintetizzo: «Ma ti pare che io davvero ci credo, alle parole che canto? No, io lo so benissimo che con gli anni si sono consumate e che noi non stiamo più ai tempi di Bovio. Sempre veri, invece, restano i sentimenti che stanno dietro quelle parole. E allora, siccome le parole si sono consumate, io, per toccare nella gente quei sentimenti, non debbo mirare al cervello, ma alle viscere. Debbo servirmi, quindi, del corpo, non dell’anima».
Avete capito? Lo «zappatore» parlava di Brecht, dello straniamento, degli archetipi. E non sapeva di Brecht, dello straniamento, degli archetipi. O meglio, ne sapeva per istinto, quindi al di là e più in profondità di qualsiasi cognizione teorica. Com’è capace di sapere il popolo. Ed io mi rividi davanti agli occhi il gesto con cui, cantando «Guapparia», Mario tirava fuori con la voglia di piangere il fazzoletto dal taschino della giacca, lo martoriava nel pugno in un rigurgito di rabbia e infine, in perfetta sincronia col verso «cacciatemmenne ‘a dint’ ‘a suggità», lasciava cadere il braccio come devitalizzato. Già, la storia dello sconfitto protagonista di «Guapparia» non la incarnavano le parole di Bovio, ma i gesti di Merola.
” Ipotesi Il vero mare in cui i napoletani temono di naufragare è l’impotenza e la falsità delle parole
Cantando Guapparia, tirava fuori con la voglia di piangere il fazzoletto lo martoriava nel pugno