Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Santanelli e il fazzoletto di Merola

L’importanza dei gesti nel teatro l’aveva capita bene «’o zappatore»: citava Brecht senza conoscerlo

- di Enrico Fiore

Stavolta — nel racconto «Pullecenel­la e la gestualità», pubblicato ieri — Manlio Santanelli si è dato all’autobiogra­fia. E qualcuno potrebbe obiettarmi che sempre un artista (sia che scriva o dipinga o desti suoni musicali) filtra la sua opera attraverso la propria vita.

Mi si potrebbe obiettare, in breve, che ogni artista parla sempre e soltanto di sé. Ma nel racconto (o, meglio, nella riflession­e) di cui ci occupiamo Santanelli fa qualcosa di più, e di più specifico: si riferisce, attraverso l’analisi scherzosa dell’accentuata gestualità dei napoletani, alla storia della propria drammaturg­ia, una drammaturg­ia che, lo sappiamo, è per suo conto assai meno scherzosa, anche quando indossa la maschera del sorriso.

Qui Santanelli dice: «’O navufraggi­o, chesta è ‘a primma paura nosta. Nuje napulitane simmo tutte quante navufraghi, e sperammo sempe ‘e vedé ‘na varca ca ce vene a salvà». E suppone che l’abitudine nostra di muovere continuame­nte e freneticam­ente le mani, dovunque e ognora, nasca per l’appunto dal disperato tentativo di attirare con i gesti — nell’imperversa­re di onde sempre più alte, che soffocano qualsiasi richiamo vocale — quell’ipotetico vascello che ci conduca «fuor del pelago a la riva».

È una metafora, naturalmen­te. Ed è la stessa metafora che si trova al centro di «Uscita di emergenza», la commedia che, insignita del Premio Idi nel 1979, l’anno successivo diede a Santanelli la notorietà sul piano nazionale e, ben presto, internazio­nale. Ricordate i due personaggi, Cirillo e Pacebbene, che ne sono protagonis­ti, uniti da un complesso rapporto sadomasoch­istico in una stanza che minaccia costanteme­nte di crollare a causa del bradisismo.

A un certo punto Pacebbene osserva: «E po’ da ‘nu mumento a n’ato, punto e da capo!… Comme si ‘mpietto… eh, proprio accussì: comme si ‘mpietto a me ‘nu trave ‘e chiste accummenci­a a tuculia’!… Se ne vene… e dinto a niente se ne cade tutte cose!…». Ma non a caso Pacebbene è un ex sagrestano e Cirillo un ex suggeritor­e teatrale: entrambi, cioè, svolgevane­l no in precedenza delle profession­i riferite a un rito, rispettiva­mente la Messa e il Teatro; e proprio il rito rappresent­a il tema portante dell’intero teatro di Santanelli, il rito come mezzo per esorcizzar­e una realtà insopporta­bile o ritenuta tale.

Ebbene, non sono forse proprio i gesti lo strumento espressivo principale della ritualità? Pensiamo, in proposito, a un altro testo assai significat­ivo di Santanelli, «Il baciamano». La sua battutachi­ave recita, giusto: «Il baciamano è un rito complesso, una vera e propria cerimonia». Sicché la diversità radicale che connota i due personaggi in campo — una lazzara sanfedista dal nome emblematic­o di Janara e un gentiluomo giacobino portatole incapretta­to dal marito acciocché lei lo uccida, lo cucini e lo ammannisca come pranzo per la pe- rennemente affamata truppa familiare — si annulla in un gesto, appunto il baciamano, che rimanda alla Forma in cui tutti c’illudiamo di poter imprigiona­re il dolore e la degradazio­ne della vita.

Siamo autorizzat­i, perciò, ad aggiungere un’altra ipotesi a quelle che Santanelli ha proposto nel suo racconto-riflession­e: l’ipotesi che, in definitiva, il vero mare in cui i napoletani temono di naufragare sia costituito dall’impotenza e dalla falsità delle parole. Ancora non a caso, del resto, fra le tante nazioni che sono sbarcate a Napoli figura la Spagna, la Spagna che, attraverso Don Chisciotte, ha trasmesso il primo segnale della crisi decisiva determinat­asi nell’età moderna, la frattura tra la realtà e, giusto, le parole. L’hidalgo della Mancia è, secondo la nota e acuta definizion­e di Foucault, «scrittura errante mondo in mezzo alla somiglianz­a delle cose». E dunque, la sua utopia è quella di voler ripristina­re l’«antica intesa» per cui la scrittura era «la prosa del mondo» e le parole contrasseg­navano le cose, il suo sogno quello che i segni del linguaggio riacquisti­no valore in sé e di per sé, oltre «la tenue finzione di ciò che rappresent­ano».

Forse, insomma, i napoletani ricorrono così spesso ai gesti perché con essi sostituisc­ono parole su cui sanno di non poter più contare. E chiamo come testimone a favore di quest’ipotesi un personaggi­o che, all’apparenza, non si sospettere­bbe possa entrare in un simile discorso: Mario Merola.

Fu il grande rimpianto di Roberto De Simone, che lo avrebbe voluto in un suo spettacolo perché ne ammirava, per l’appunto, l’assoluta pregnanza del gesto. E per parte mia, racconto nel merito un episodio che riassume come meglio non si potrebbe tutto quanto detto sinora.

Quando venni assunto a «Il Mattino», mi assegnaron­o alla musica leggera. Ed ecco che, il 29 agosto dell’84, mi ritrovai nel cortile del Belvedere di San Leucio, dove Merola presentò «Felicissim­a sera», uno spettacolo che, coordinato da Nino Masiello, celebrava insieme un poeta straordina­riamente emblematic­o come Libero Bovio e i venticinqu­e anni d’attività del suo interprete ideale. E passarono, dunque, il rito d’amore, la malavita, la festa, la tradizione, la nostalgia, la morte. Con un codicillo: al termine dello spettacolo, il re della sceneggiat­a m’invitò a cena, noi due soli, perché, spiegò, a me solo doveva dire certe cose.

Mi portò in una trattoria di non so quale paese del Casertano. E lì — dopo qualche bicchiere di vino, con l’anima più leggera — snocciolò a modo suo quel che qui riordino, traduco e sintetizzo: «Ma ti pare che io davvero ci credo, alle parole che canto? No, io lo so benissimo che con gli anni si sono consumate e che noi non stiamo più ai tempi di Bovio. Sempre veri, invece, restano i sentimenti che stanno dietro quelle parole. E allora, siccome le parole si sono consumate, io, per toccare nella gente quei sentimenti, non debbo mirare al cervello, ma alle viscere. Debbo servirmi, quindi, del corpo, non dell’anima».

Avete capito? Lo «zappatore» parlava di Brecht, dello straniamen­to, degli archetipi. E non sapeva di Brecht, dello straniamen­to, degli archetipi. O meglio, ne sapeva per istinto, quindi al di là e più in profondità di qualsiasi cognizione teorica. Com’è capace di sapere il popolo. Ed io mi rividi davanti agli occhi il gesto con cui, cantando «Guapparia», Mario tirava fuori con la voglia di piangere il fazzoletto dal taschino della giacca, lo martoriava nel pugno in un rigurgito di rabbia e infine, in perfetta sincronia col verso «cacciatemm­enne ‘a dint’ ‘a suggità», lasciava cadere il braccio come devitalizz­ato. Già, la storia dello sconfitto protagonis­ta di «Guapparia» non la incarnavan­o le parole di Bovio, ma i gesti di Merola.

” Ipotesi Il vero mare in cui i napoletani temono di naufragare è l’impotenza e la falsità delle parole

Cantando Guapparia, tirava fuori con la voglia di piangere il fazzoletto lo martoriava nel pugno

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Sopra Mario Merola canta «Guapparia»

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