Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Quel mistero del ceppo influenzale «funiculì»
Come molti napoletani che vivono lontani dalla loro città natale, sono anch’io vittima della sindrome della Carmen. Ricorderete don José, l’eroe dell’opera di Bizet, che soffriva intuendo che la bella zingara non gli era fedele, e tuttavia non poteva evitare di vivere una passone smodata per lei? Be’ – come tanti altri – ho un atteggiamento analogo nei confronti di Napoli: non riesco a starle lontano troppo a lungo senza sentirne la struggente mancanza ma, ogni volta che ci rimetto piede, mi struggo per il dolore che mi dà il tradimento delle aspettative che mi procura. Amo et odi, diceva Catullo. I giudizi di molti amici in visita a Napoli per lavoro o diporto concordano nel sostenere che la città è cambiata, che è molto migliorata e che ormai ha superato Roma nella qualità dell’offerta turistica, dell’accoglienza e della rete di servizi.
La cosa, ovviamente, non può non inorgoglire un napoletano nostalgico come me che vive nella capitale da ormai più di trent’anni.
Però poi viene inevitabile chiedersi quali aspettative avevano questi amici in visita a Napoli? Sì, insomma, ma cosa immaginavano di trovare una volta sbarcati in città: temevano forse di ritrovarsi a Calcutta (sia detto con tutto il rispetto per l’India)? E, soprattutto: data la situazione di degrado in cui versa la Capitale del Paese – tra monnezza non raccolta, voragini che inghiottono passanti senza restituirne i corpi (è avvenuto sulla Pontina, la provinciale che da Roma porta sulla costa), autobus che prendono fuoco, metropolitane che si allagano ogni volta che piove – è davvero un complimento dire che Napoli è meglio di Roma o si tratta invece di una gara a chi sta meno peggio?
Credo, temo anzi, che dietro questa affermazione piena di sincero stupore si celi un coacervo di luoghi comuni e pregiudizi che impedisce di vedere le cose nella loro complessità, e precluda a una valutazione oggettiva dei dati. Roma è una città vicino al collasso che, per evitare di precipitare nel baratro del caos deve sperare nell’intervento salvifico e risolutivo del governo. È in corso, da mesi, una trattativa per evitare il default dell’azienda pubblica di trasporto, che rischia di soccombere sotto una impressionante mole di debiti. La città non sa dove mettere le tonnellate di rifiuti che ogni giorno produce, non avendo più una discarica né rispettando
le quote previste per la raccolta differenziata. La scorsa estate ha avuto problemi di approvvigionamento idrico, al punto da subire disdette alberghiere da agenzie turistiche internazionali. Lo stato di abbandono è tale che gli alberi dei grandi viali, malati e non curati, se ne stanno lì, come d’autunno sugli alberi le foglie, pronti a cadere ai primi acquazzoni sulla testa dei passanti, cosa che avviene con più frequenza di quanto si possa immaginare.
Napoli meglio di Roma, dicono? Se è così, è difficile essere contenti di vincere un paragone di questo tipo, perché è come sentirsi dire da un amico incontrato per strada che ci trova meglio di uno ricoverato in terapia intensiva.
È evidente che i miei amici in visita a Napoli si limitano a una valutazione degli innegabili segnali positivi che qua e là si colgono (raramente per mano pubblica, va detto) e si accontentano di questi miglioramenti, che evidentemente risultano sufficienti a spezzare le catene degli stereotipi di chi immagina di venire a Napoli con il giubbotto anti
proiettile e avendo fatto per tempo la profilassi anti colera.
Ma per chi vive quotidianamente questa città, per tutti quelli che si muovono al di fuori delle meravigliose e collaudate rotte del turismo, Napoli è un luogo dove non è semplice vivere, una città che spesso è matrigna. Parliamo di una metropoli collinare dove si bloccano le tre funicolari cittadine, tutte insieme, per un morbo che prende gli addetti ai lavori e che verrà presto rubricato accanto ad altre patologie esotiche, come il morbo del legionario. Il morbo della funicolare ha paralizzato la città. Adesso c’è un’indagine in corso.
Dopo tre giornate di stop, l’autorità sugli scioperi ha aperto un’istruttoria per capire la congruenza dell’influenza del ceppo funiculì che ha messo a letto tutti o quasi i responsabili dei servizi. E mentre a Roma sparuti volontari tappano le buche stradali al posto degli addetti del Comune, o le segnalano con la vernice gialla (come fa la mamma di una motociclista, morta dopo aver perso il controllo del suo scooter), a Mergellina, il biglietto da visita di Napoli, c’è ancora una voragine nel marciapiedi causata dalla sciroccata che si è abbattuta sulla città un mese fa. Un mese fa, non ieri sera. Certo, la zona è stata messa in sicurezza e intorno alla voragine ci sono le fascette arancioni fosforescenti. Ma quello dovrebbe essere il waterfront della città, il porto turistico di Napoli, la zona d’attracco delle barche da diporto, il marciapiedi della passeggiata sul lungomare, quello che porta al molo Luise, di fronte agli chalet. Una città che punta (anche) sul turismo dovrebbe aver messo mano a una roba simile nel giro di poche ore, di una manciata di giorni, al più. Si tratta di una delle porte d’ingresso della città, dopotutto. E invece non solo dopo un mese non s’è visto nessuno, ma non sono state rimosse nemmeno le macerie.
Aspettare il meglio e prepararsi al peggio: ecco la regola, diceva Fernando Pessoa.
Provate un po’ a dargli torto.