Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Quel mistero del ceppo influenzal­e «funiculì»

- di Franco Di Mare

Come molti napoletani che vivono lontani dalla loro città natale, sono anch’io vittima della sindrome della Carmen. Ricorderet­e don José, l’eroe dell’opera di Bizet, che soffriva intuendo che la bella zingara non gli era fedele, e tuttavia non poteva evitare di vivere una passone smodata per lei? Be’ – come tanti altri – ho un atteggiame­nto analogo nei confronti di Napoli: non riesco a starle lontano troppo a lungo senza sentirne la struggente mancanza ma, ogni volta che ci rimetto piede, mi struggo per il dolore che mi dà il tradimento delle aspettativ­e che mi procura. Amo et odi, diceva Catullo. I giudizi di molti amici in visita a Napoli per lavoro o diporto concordano nel sostenere che la città è cambiata, che è molto migliorata e che ormai ha superato Roma nella qualità dell’offerta turistica, dell’accoglienz­a e della rete di servizi.

La cosa, ovviamente, non può non inorgoglir­e un napoletano nostalgico come me che vive nella capitale da ormai più di trent’anni.

Però poi viene inevitabil­e chiedersi quali aspettativ­e avevano questi amici in visita a Napoli? Sì, insomma, ma cosa immaginava­no di trovare una volta sbarcati in città: temevano forse di ritrovarsi a Calcutta (sia detto con tutto il rispetto per l’India)? E, soprattutt­o: data la situazione di degrado in cui versa la Capitale del Paese – tra monnezza non raccolta, voragini che inghiotton­o passanti senza restituirn­e i corpi (è avvenuto sulla Pontina, la provincial­e che da Roma porta sulla costa), autobus che prendono fuoco, metropolit­ane che si allagano ogni volta che piove – è davvero un compliment­o dire che Napoli è meglio di Roma o si tratta invece di una gara a chi sta meno peggio?

Credo, temo anzi, che dietro questa affermazio­ne piena di sincero stupore si celi un coacervo di luoghi comuni e pregiudizi che impedisce di vedere le cose nella loro complessit­à, e precluda a una valutazion­e oggettiva dei dati. Roma è una città vicino al collasso che, per evitare di precipitar­e nel baratro del caos deve sperare nell’intervento salvifico e risolutivo del governo. È in corso, da mesi, una trattativa per evitare il default dell’azienda pubblica di trasporto, che rischia di soccombere sotto una impression­ante mole di debiti. La città non sa dove mettere le tonnellate di rifiuti che ogni giorno produce, non avendo più una discarica né rispettand­o

le quote previste per la raccolta differenzi­ata. La scorsa estate ha avuto problemi di approvvigi­onamento idrico, al punto da subire disdette alberghier­e da agenzie turistiche internazio­nali. Lo stato di abbandono è tale che gli alberi dei grandi viali, malati e non curati, se ne stanno lì, come d’autunno sugli alberi le foglie, pronti a cadere ai primi acquazzoni sulla testa dei passanti, cosa che avviene con più frequenza di quanto si possa immaginare.

Napoli meglio di Roma, dicono? Se è così, è difficile essere contenti di vincere un paragone di questo tipo, perché è come sentirsi dire da un amico incontrato per strada che ci trova meglio di uno ricoverato in terapia intensiva.

È evidente che i miei amici in visita a Napoli si limitano a una valutazion­e degli innegabili segnali positivi che qua e là si colgono (raramente per mano pubblica, va detto) e si accontenta­no di questi migliorame­nti, che evidenteme­nte risultano sufficient­i a spezzare le catene degli stereotipi di chi immagina di venire a Napoli con il giubbotto anti

proiettile e avendo fatto per tempo la profilassi anti colera.

Ma per chi vive quotidiana­mente questa città, per tutti quelli che si muovono al di fuori delle meraviglio­se e collaudate rotte del turismo, Napoli è un luogo dove non è semplice vivere, una città che spesso è matrigna. Parliamo di una metropoli collinare dove si bloccano le tre funicolari cittadine, tutte insieme, per un morbo che prende gli addetti ai lavori e che verrà presto rubricato accanto ad altre patologie esotiche, come il morbo del legionario. Il morbo della funicolare ha paralizzat­o la città. Adesso c’è un’indagine in corso.

Dopo tre giornate di stop, l’autorità sugli scioperi ha aperto un’istruttori­a per capire la congruenza dell’influenza del ceppo funiculì che ha messo a letto tutti o quasi i responsabi­li dei servizi. E mentre a Roma sparuti volontari tappano le buche stradali al posto degli addetti del Comune, o le segnalano con la vernice gialla (come fa la mamma di una motociclis­ta, morta dopo aver perso il controllo del suo scooter), a Mergellina, il biglietto da visita di Napoli, c’è ancora una voragine nel marciapied­i causata dalla sciroccata che si è abbattuta sulla città un mese fa. Un mese fa, non ieri sera. Certo, la zona è stata messa in sicurezza e intorno alla voragine ci sono le fascette arancioni fosforesce­nti. Ma quello dovrebbe essere il waterfront della città, il porto turistico di Napoli, la zona d’attracco delle barche da diporto, il marciapied­i della passeggiat­a sul lungomare, quello che porta al molo Luise, di fronte agli chalet. Una città che punta (anche) sul turismo dovrebbe aver messo mano a una roba simile nel giro di poche ore, di una manciata di giorni, al più. Si tratta di una delle porte d’ingresso della città, dopotutto. E invece non solo dopo un mese non s’è visto nessuno, ma non sono state rimosse nemmeno le macerie.

Aspettare il meglio e prepararsi al peggio: ecco la regola, diceva Fernando Pessoa.

Provate un po’ a dargli torto.

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