Corriere del Mezzogiorno (Campania)
BORGHESIA E CLASSE DIRIGENTE
Prende lo sconforto a sentire di continuo che una delle ragioni, anzi la principale, dello stato disastroso di Napoli e dell’area metropolitana è l’assenza di una vera «classe dirigente». Che, a sua volta, dipende dalla scomparsa o dall’ignavia della borghesia. Affermazione difficile da contestare a prima vista. Utile sarebbe però lo sforzo parallelo di capire le cause di un fenomeno importante e preoccupante, specie per il futuro delle nuove generazioni. Un’altra amara e scontata verità infatti è la fuga inarrestabile, dalla nostra terra, dei giovani che si sono formati nelle nostre scuole e nelle nostre università, a spese di risorse locali: materiali, spirituali, culturali e morali. Poco importa che la loro formazione sia avvenuta con studi classici, scientifici, artistici, musicali o tecnicoprofessionali. Si tratta, in ogni caso, di energie e forze produttive che ci vengono sottratte, perché qui mancano occasioni di lavoro adeguate alla loro professionalità. In prevalenza, si sa, sono figli della borghesia: la quale – secondo, appunto, la buona tradizione borghese – guarda fuori Napoli e fuori Campania, o addirittura all’estero, per un degno avvenire dei suoi figli (peraltro l’emigrazione giovanile è la piaga di quasi tutte le regioni del Sud). Il fenomeno è fin troppo noto e va allargandosi. Coinvolge financo giovani operai, intraprendenti e preparati, che rifiutano l’inaccettabile arresto dell’ascensore sociale.
Specie quando, magari dopo un’esperienza provvisoria fuori, vedono che altrove sono accolti a braccia aperte e valorizzati per l’effettivo loro merito. Dei giovani emigrati alcuni – non tutti – ritornano nella loro terra d’origine per le vacanze: di solito quelle estive (grazie a sole e mare) mentre a Natale e a Pasqua, svalutati sentimenti e valori religiosi, preferiscono andare in Europa e per il mondo.
Saranno pure banalità trite e ritrite quelle dette finora, ma sono o non sono le ragioni della scarsa presenza della borghesia, delle élite e della classe dirigente? I borghesi di cinquanta o sessant’anni, che ancora potrebbero occuparsi attivamente della «cosa pubblica» locale, sono poco motivati: spediti i figli all’estero, per la disoccupazione e l’invivibilità, se per un verso sono contenti per l’avvenire migliore di essi, per un altro verso sono disamorati. Chi rimane inchiodato qui? Scomparso, con la massiccia deindustrializzazione, pure il proletariato operaio, che lavorava con diligenza e passione e faceva financo figli, rimane chi si avvantaggia
del familismo (più o meno amorale): nelle professioni, nell’università, nei concorsi pubblici. O che, sempre grazie alle famiglie, ha locali cospicui interessi patrimoniali. O chi si arrangia, magari tramite clientele politiche. O fa parte di cordate affaristiche, nelle migliori delle ipotesi; o, nelle peggiori, appartiene a reti camorristiche: in senso stretto o in senso lato, diffondendo corruzione). Poi, certo, c’è una vasta area di autentica povertà, che intenerisce e fa tremare.
In un quadro del genere, come potrebbe mai nascere una classe dirigente? La verità è che la borghesia seria, solida, produttiva e sensibile al bene comune e al servizio della collettività, e soprattutto i cosiddetti «intellettuali» – quel poco che è rimasto! – sono stati sconfitti,
in una lotta impari, da una plebe incolta, priva di gusto e di decoro, con o senza soldi. Quel poco che è rimasto della borghesia e dell’intellettualità e quel molto della povertà fanno parte dell’alta percentuale di cittadini che non s’impegnano in politica e magari non vanno nemmeno a votare.
Ora, che non lo facciano i poveri è ovvio. Ma si può dire che borghesia e intellettuali siano di ciò colpevoli? Non credo: ridotti a sparuta minoranza, sono emarginati e neppure rispettati. Se si presentassero alle elezioni, prenderebbero tre voti, e se s’impegnassero nella cosa pubblica, rischierebbero la galera. E gli esempi non mancano. Nessuna meraviglia allora se vincono i populisti e gli incompetenti.