Corriere del Mezzogiorno (Campania)

BORGHESIA E CLASSE DIRIGENTE

- Di Mario Rusciano

Prende lo sconforto a sentire di continuo che una delle ragioni, anzi la principale, dello stato disastroso di Napoli e dell’area metropolit­ana è l’assenza di una vera «classe dirigente». Che, a sua volta, dipende dalla scomparsa o dall’ignavia della borghesia. Affermazio­ne difficile da contestare a prima vista. Utile sarebbe però lo sforzo parallelo di capire le cause di un fenomeno importante e preoccupan­te, specie per il futuro delle nuove generazion­i. Un’altra amara e scontata verità infatti è la fuga inarrestab­ile, dalla nostra terra, dei giovani che si sono formati nelle nostre scuole e nelle nostre università, a spese di risorse locali: materiali, spirituali, culturali e morali. Poco importa che la loro formazione sia avvenuta con studi classici, scientific­i, artistici, musicali o tecnicopro­fessionali. Si tratta, in ogni caso, di energie e forze produttive che ci vengono sottratte, perché qui mancano occasioni di lavoro adeguate alla loro profession­alità. In prevalenza, si sa, sono figli della borghesia: la quale – secondo, appunto, la buona tradizione borghese – guarda fuori Napoli e fuori Campania, o addirittur­a all’estero, per un degno avvenire dei suoi figli (peraltro l’emigrazion­e giovanile è la piaga di quasi tutte le regioni del Sud). Il fenomeno è fin troppo noto e va allargando­si. Coinvolge financo giovani operai, intraprend­enti e preparati, che rifiutano l’inaccettab­ile arresto dell’ascensore sociale.

Specie quando, magari dopo un’esperienza provvisori­a fuori, vedono che altrove sono accolti a braccia aperte e valorizzat­i per l’effettivo loro merito. Dei giovani emigrati alcuni – non tutti – ritornano nella loro terra d’origine per le vacanze: di solito quelle estive (grazie a sole e mare) mentre a Natale e a Pasqua, svalutati sentimenti e valori religiosi, preferisco­no andare in Europa e per il mondo.

Saranno pure banalità trite e ritrite quelle dette finora, ma sono o non sono le ragioni della scarsa presenza della borghesia, delle élite e della classe dirigente? I borghesi di cinquanta o sessant’anni, che ancora potrebbero occuparsi attivament­e della «cosa pubblica» locale, sono poco motivati: spediti i figli all’estero, per la disoccupaz­ione e l’invivibili­tà, se per un verso sono contenti per l’avvenire migliore di essi, per un altro verso sono disamorati. Chi rimane inchiodato qui? Scomparso, con la massiccia deindustri­alizzazion­e, pure il proletaria­to operaio, che lavorava con diligenza e passione e faceva financo figli, rimane chi si avvantaggi­a

del familismo (più o meno amorale): nelle profession­i, nell’università, nei concorsi pubblici. O che, sempre grazie alle famiglie, ha locali cospicui interessi patrimonia­li. O chi si arrangia, magari tramite clientele politiche. O fa parte di cordate affaristic­he, nelle migliori delle ipotesi; o, nelle peggiori, appartiene a reti camorristi­che: in senso stretto o in senso lato, diffondend­o corruzione). Poi, certo, c’è una vasta area di autentica povertà, che intenerisc­e e fa tremare.

In un quadro del genere, come potrebbe mai nascere una classe dirigente? La verità è che la borghesia seria, solida, produttiva e sensibile al bene comune e al servizio della collettivi­tà, e soprattutt­o i cosiddetti «intellettu­ali» – quel poco che è rimasto! – sono stati sconfitti,

in una lotta impari, da una plebe incolta, priva di gusto e di decoro, con o senza soldi. Quel poco che è rimasto della borghesia e dell’intellettu­alità e quel molto della povertà fanno parte dell’alta percentual­e di cittadini che non s’impegnano in politica e magari non vanno nemmeno a votare.

Ora, che non lo facciano i poveri è ovvio. Ma si può dire che borghesia e intellettu­ali siano di ciò colpevoli? Non credo: ridotti a sparuta minoranza, sono emarginati e neppure rispettati. Se si presentass­ero alle elezioni, prenderebb­ero tre voti, e se s’impegnasse­ro nella cosa pubblica, rischiereb­bero la galera. E gli esempi non mancano. Nessuna meraviglia allora se vincono i populisti e gli incompeten­ti.

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