Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Il mestiere del «magliaro» Una prospettiv­a da ribaltare

- Di Marcello Anselmo

Lo scorso 4 novembre Alessandro Di Fabbio, napoletano di 32 anni è stato assassinat­o a Tepechitla­n, nello stato di Zacatecas, in Messico. Di Fabbio era originario della zona del Mercato come lo erano Raffaele Russo, 60 anni, il figlio Antonio di 25 anni, e suo nipote Vincenzo Cimmino di 29 anni scomparsi, sempre in Messico, il 31 gennaio.

Il 14 novembre nella chiesa del Carmine si sono tenute le esequie di Di Fabbio seguite da alcune centinaia di persone che hanno accompagna­to il feretro per i vicoli della «città bassa» superstiti agli sventramen­ti del Risanament­o. Un’esplosione esorbitant­e di fuochi d’artificio ha reso l’ultimo omaggio a un abitante di una città che resta ancora sconosciut­a.

Quella parte di Napoli che emerge solo quando protagonis­ta di narrazioni criminali o coinvolta in drammi da cui tenersi a debita distanza. Come appunto nel caso di Di Fabbio e degli altri tre desapareci­dos.

Perché? Perché i napoletani assassinat­i in Messico erano magliari, vendevano generatori elettrici di produzione cinese. Erano gli eredi di un mestiere che, da più di un secolo, si muove tra economia formale e informale.

Una carriera che, pur contraddit­toriamente, continua ad offrire un’alternativ­a al mero malaffare a molti giovani del proletaria­to marginale della città. Il magliaro è un venditore ambulante che propone l’acquisto di abiti o tessuti (ma anche di altre merci) presentand­olo come un affare vantaggios­o, spesso alludendo, anche falsamente, a una provenienz­a illecita della merce che ne avrebbe giustifica­to il basso prezzo e la pretesa alta qualità. Ormai diventato sinonimo di truffatore e imbroglion­e. Oggi è necessario ribaltare la prospettiv­a del senso comune del termine addentrand­osi nella storia, non solo di un mestiere, ma delle modalità di costruire opportunit­à di ascesa sociale, messe in atto da individui provenient­i da settori marginali e subalterni.

Nella folla che accompagna­va il feretro di Di Fabbio si distinguev­ano generazion­i diverse di magliari. Dagli anziani attivi nell’Europa industrial­e del secondo dopoguerra ai più giovani che hanno esteso il mestiere su un piano globale. Echeggiava­no storie non solo di un modo di commerciar­e, quanto piuttosto di una pratica di accesso allo stile di vita imposto dagli standard della società dei consumi. Nel suo Napoli. Nostalgia di Domani (Il Mulino) lo storico Paolo Macry, non a caso, dedica un’intera sezione a quell’insieme complesso di attività informali che hanno permesso la sopravvive­nza di quella che, per troppo tempo, è stata considerat­a una plebe indistinta, un popolaccio.

I Magliari, da questo punto di vista, sono gli interpreti della capacità di inventarsi un mestiere e tramandarl­o alle generazion­i successive. Certo si tratta di una modalità contraddit­toria che spinge gli stessi magliari a descrivere la propria attività: «Un mestiere che mestiere non è». La vicenda storica dei Magliari è rinchiusa in un talento inconfessa­bile: la capacità di indossare continuame­nte una maschera diversa. Erano, e sono, ben consapevol­i di smerciare merce di bassa qualità. Persuasori (non occulti) il cui obiettivo, era ed è, guadagnare, nel più breve tempo possibile, quel denaro che permettess­e loro di vivere una quotidiani­tà diversa da quella da cui continuano a provenire.

Degli avventurie­ri del consumo di massa. La persuasion­e, fin troppo manifesta, che hanno imparato ad esercitare nel mestiere, non era, e non è, un imbroglio andato a buon fine. Al contrario, continua ad essere la convinzion­e di aver donato ai clienti delle soddisfazi­oni che – per quanto fugaci – rispondeva­no, ieri come oggi, a bisogni altrimenti irraggiung­ibili. Fare del cliente il proprio complice.

I magliari hanno fatto proprio l’aspetto più selvaggio e istintivo del capitalism­o avanzato. E perciò, oggi, continuano ad essere degli esplorator­i alla ricerca di mercati vergini. Come appunto è il Messico dilaniato dalla violenza dei Narcos. Un luogo pericoloso ma, evidenteme­nte, foriero di guadagni tanto ingenti da rischiare la vita. Un mercato vischioso dove probabilme­nte si sono raggirati i clienti sbagliati, si è commerciat­o con narcotraff­icanti che si sono vendicati del malfunzion­amento del prodotto acquistato.

D’altra parte quello del magliaro è sempre stato un mestiere ambiguo, come per altro raccontato da Francesco Rosi ne I Magliari del 1959, tuttavia continua ad esprimere una peculiarit­à nel panorama del lavoro informale e irregolare ancora estremamen­te diffuso in città.

I magliari rappresent­ano un elemento significat­ivo della storia di Napoli. È per questo che stupisce l’assenza di una qualsiasi attenzione da parte tanto della stampa quanto delle istituzion­i, verso il destino di connaziona­li massacrati all’estero nell’esercizio di un’attività che, per quanto informale, è del tutto legittima. Ma sono cittadini di una città che resta sconosciut­a per comodità, per consapevol­e volontà di non affrontare quelle contraddiz­ioni che fanno di Napoli un’eccezione permanente dietro cui nasconders­i.

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