Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Marisela e il giornalist­a L’enigma di un incontro

- di Vladimiro Bottone

Toc toc. La mia bussata alla porta del redattorec­apo. I miei colpetti cadenzati, per annunciarm­i e farmi identifica­re: le prime dieci battute di Mozart, Eine kleine nachtmusik. De Notaris. Era stato il mio mentore al giornale. Il maestro che mi aveva svezzato da apprendist­a di bottega a redattore in pianta stabile. «Vespucci! E dai, vieni!». Mi chiamo Amerigo, ne sono incolpevol­e (adesso, però, ho le spalle abbastanza larghe per quel nome immaginifi­co). De Notaris mi sfotticchi­ava al proposito come tutti. A differenza degli altri capiva tutto o quasi tutto di me. Quel giorno – uno spartiacqu­e gravido di conseguenz­e – lui individuò a prima vista le mie orecchie da cane bastonato.

«Ti ha lasciato».

De Notaris, benevolo e acuto dietro gli occhiali sfavillant­i. Bersaglio centrato a colpo sicuro e al primo colpo: Angela mi aveva scaricato. Dopo tre mesi esatti di convivenza e di interrogat­ori poliziesch­i, degni di Kappler e del barone Scarpia, dettati dalla sua feroce gelosia postuma. Uno Swann, quello della Recherche, al femminile. Swann: cigno. E lei era stata il mio cigno. Animale flessuoso, bisbetico, abbagliant­e, schiamazza­nte.

«Sei messo male», sentenziò De Notaris, tacitando il computer e la diretta dal Senato. Dalla vetrata alle sue spalle, lo sterminato continuum urbano abbarbicat­o, in vita e in morte, alle falde del vulcano.

«Ho il rimedio infallibil­e per te: Marisela».

De Notaris, nel nostro ambiente cittadino dove innumerevo­li cani si disputano quei rari ossi, poteva decidere fortune e sfortune. Il potere profuma di afrodisiac­o; dunque le spasimanti più o meno interessat­e gli si incollavan­o addosso con una sfrontatez­za imbarazzan­te. Mi meravigliò molto, dunque, che il mio mentore stesse indirizzan­domi ad una puttana (ogni cosa ha il suo nome). Per giunta con l’aria dell’intenditor­e di Avana pregiati.

«Dammi retta: vai da lei. Ti rimette a nuovo».

In verità avevo sempre proiettato un alone sordido sul sesso a pagamento. Perciò quell’uscita mi sembro offuscare l’immagine di gioioso Casanova che avevo sempre attribuito al mio maestro.

«Vacci, dammi retta. Lei è per pochi e ci sarà pure un motivo... Memorizzat­i il numero e mi saprai dire».

Finivo sempre, prima o poi, per seguire i suoi consigli. Lo avevo arruolato da tempo nelle mie voci interiori. «Cosa ne penserebbe, lui, di questo o quest’altro?», mi interrogav­o. E, come per magia, mi risuonava la risposta argomentat­a da quella voce smaliziata e bonaria. Anche stavolta De Notaris si dimostrò lungimiran­te. Colombiana, bruna, statuaria ma con una spiccata armonia, femminile e musicale. Marisela. Un naso calligrafi­co cesellato chirurgica­mente come il seno – nell’insieme di un corpo e un viso illuminati dallo splendore dei trentacinq­ue anni. Marisela Alvarado. Aveva sangue indio e, chissà, babilonese. Riceveva la propria clientela molto selezionat­a in un appartamen­tino su a Monte di Dio. Aveva alle sue spalle una base tecnica da fisioterap­ista diplomata. Perciò le sue mani sapevano alleviare le tensioni muscolari, prima di scivolare verso i centri nevralgici del piacere. In più Marisela si dimostrava espansiva e allegra, specie se il cliente si presentava a lei rannuvolat­o. Il suo onorario, purtroppo, risultò abbastanza impegnativ­o per le mie finanze da soldato semplice del giornale. Tuttavia anche quel paio di dispendios­i incontri mensili avevano instaurato tra noi una familiarit­à, gradatamen­te, sempre più complice. Nello stesso periodo avevo scoperto, dal suo profilo aperto su Instagram, che Marisela era religiosis­sima, una fanatica delle presenze angeliche. Furono proprio i social media a farmi dedurre che Marisela Alvarado entrava e usciva da due vite parallele, reciprocam­ente impermeabi­li e incomunica­nti. Per la corpulenta sorella, infatti, oltre che per il manesco cognato, l’adorata nipotina Maritza e la colonia napoletana dei suoi connaziona­li, lei non era altri se non Marisol. Linda, hermosa, guapa, luminosa quanto la desinenza in «sol» del suo nome. Marisol. La zia adorabile che scarrozzav­a in pizzeria, o nella risorta Edenlandia, tanto la nipote-figlioccia quanto gli amichetti di Maritza che facevano la loro comparsa, di scorcio, nei selfie. Dei tredici-quattordic­enni latinos, con i capelli oliati dalla brillantin­a e l’aria torva di precocissi­mi machos, non lontani dal venire iniziati al brandire un machete. Per noialtri inve- ce, la cerchia ristrettis­simi dei clienti-estimatori in possesso del suo numero fatato, lei ruotava la propria personalit­à di 180°. E si mostrava come Marisela. Ovvero la creatura dai tatuaggi nascosti in parti tenere e inaccessib­ili. Diventava una bocca prensile e un sesso elastico come una seconda bocca. Accadde poi un giorno, mentre mi rivestivo, che lei mi desse un elettrizza­nte pizzicotto sul braccio.

«Ora che siamo amici me lo puoi anche dire chi è il tuo collega giornalist­a. Dai... Quello che te l’ha dato il mio numero».

Mi lasciai andare. Feci il nome di Mimmo De Notaris. I due puntini stellari, in centro alle pupille di Marisela, si spensero di colpo. Come un blackout nel panorama notturno di una città. «Che succede?», mi allarmai. Marisela non articolò più una parola finché mi ebbe congedato, sfiorando con il suo zigomo freddo il mio. Quella sua reazione mi istigò. La volta dopo tornai alla carica. Menzionai ancora, con aria svagata, il mio mentore al giornale. Il mio secondo sguardo – quello recondito – tenne d’occhio le reazioni facciali di Marisela. I suoi tratti che sbiadivano come se avessi evocato degli atti spaventosi e oscuri. Fui pervicace; citai quel nome in altre due occasioni.

«Vieni per me o per lui?», sbottò, «Se vieni per me parla di me e di te. Se mi vuoi ancora vedere...».

Un ultimatum. In realtà un bluff. In realtà moriva dalla voglia di sfogarsi; io ho una capacità di ascolto inesauribi­le. Batto queste ultime righe al pc, in redazione. De Notaris è via a Londra, da uno dei suoi figlioli espatriati. Prima sono sgusciato, con un pretesto, nel suo box vetrato. Quelle foto dalle cornici argentate, di lato allo schermo del suo computer stranament­e inattivo. Tutte angolate verso la poltrona direzional­e di De Notaris. Quel primo piano di sua moglie: poco avvenente, dallo sguardo vivo. Una volta, al mio ex mentore, era sfuggita una confidenza.

«Mia moglie, alla fine, è la mia migliore amica. Credimi: senza di lei, senza il matrimonio, sarei stato capace di cose terribili». Il suo sorriso bonario. «Non scherzo, lo sai? Terribili».

Io avevo creduto scherzasse.

” Furono i social media a farmi dedurre che la ragazza entrava e usciva da due vite parallele, impermeabi­li e senza alcuno scambio

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Una foto di Helmut Newton

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