Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Lasciate che i volontari portino cibo ai poveri
Il governo che si prepara a eliminare la povertà (testuale di Luigi Di Maio), ha tentato di azzerare il Fondo nazionale per l’aiuto agli indigenti, del valore di appena cinque milioni di euro. Vi sembra impossibile? E invece è accaduto. Per fortuna il governo precedente aveva previsto una copertura triennale che per ora non si è riusciti a modificare. Ma il futuro è a rischio, e in ogni caso alla Camera la maggioranza ha bocciato l’emendamento che proponeva di raddoppiare il fondo a dieci milioni. Naturalmente non si tratta di una manifestazione di malvagità.
È invece un atto politico, con motivazioni politiche, da cui traspare anzi con grande chiarezza la cultura politica dei due partiti al governo. E proprio per questo la storia merita di essere raccontata.
Il Fondo era stato utilizzato negli ultimi anni per acquistare biscotti per l’infanzia, polpa di pomodoro e milioni di litri di latte che venivano poi forniti da Banco Alimentare e altre grandi organizzazioni del volontariato a più di diecimila associazioni caritative che assistono i poveri, soprattutto bambini. Per apprezzare la capillarità di questo intervento in Campania basti pensare che si distribuiscono così in un anno sette tonnellate di cibo, per un valore commerciale di sedici milioni di euro, a più di centocinquantamila persone indigenti della nostra regione. E se si considera che molto di questo cibo sarebbe altrimenti finito in
discarica si comprende che il valore è doppio.
La giustificazione che il governo ha addotto per mettere fine a questo intervento è il reddito di cittadinanza: dobbiamo concentrare tutte le risorse disponibili su quel provvedimento - hanno detto e se spendiamo nove miliardi di euro per combattere la povertà con una tessera prepagata, che senso ha spenderne dieci milioni per dar da mangiare ai poveri?
In questo ragionamento ci sono due errori, uno pratico e l’altro culturale.
Il primo sta nel fatto che noi non sappiamo ancora come verrà usato il reddito di cittadinanza. Si dice che dovrà servire a combattere la povertà e sarà dunque destinato alla platea degli italiani che secondo l’Istat ne sono sotto la soglia. Ma poi si aggiunge che sarà condizionato alla ricerca di un lavoro, dunque se ne deduce che sia destinato solo a chi è in grado di lavorare. Il sottosegretario leghista Siri propone anzi di trasformarlo in un contributo per le aziende che faranno formazione ai disoccupati. Ma se davvero verrà finalizzato all’occupazione, escluderebbe coloro che non sono in condizioni fisiche, psicologiche o mentali per lavorare. E purtroppo tra gli indigenti ci sono spesso persone con questi problemi, che vivono ai margini della società, non rintracciabili nemmeno dal più sofisticato dei centri per il lavoro, figuriamoci
dai nostri, scassatissimi, artigianali e senza personale.
Una politica sociale è come un fucile di precisione: bisogna prendere bene la mira prima di sparare. Altrimenti si buttano i soldi senza ottenere l’effetto desiderato. Noi non sappiamo ancora come sarà erogato questo reddito di cittadinanza, ma sappiamo che poveri e disoccupati non sempre coincidono: molti occupati sono poveri perché hanno lavori mal pagati, e molti poveri non potranno essere mai occupati. Ecco il primo errore.
Il secondo errore è invece culturale. Anche ammesso infatti che il futuro provvedimento del governo comprendesse tutti coloro che finora sono stati aiutati con il fondo per gli indigenti, perché mai azzerare una cosa che funziona, gestita dalle associazioni di volontariato locale che conoscono sul campo le persone cui si rivolgono e le loro necessità, per affogarla nel calderone nazionale di un intervento affidato a una burocrazia statale? E perché trasformare un aiuto alimentare in una tessera prepagata? Funzionerà per homeless, mendicanti e drop out?
Si scorge in questa scelta una violazione palese del principio di sussidarietà, che suggerisce invece di lasciar fare alle persone, alle famiglie, ai volontari, ciò che sanno fare meglio, invece che farlo fare allo Stato. Perché lo Stato è inefficiente, e si perde per strada un sacco di gente; è burocratico, e non ha gli occhi per vedere e le mani per toccare le persone, e le tratta come numeri, in uffici irraggiungibili gestiti da un personale demotivato e distratto; perché lo Stato è sprecone, e butta soldi in mille rivoli; perché lo Stato è permeabile alla corruzione e al favoritismo, e rischia di far arrivare risorse dove non sono davvero necessarie.
Di più, lo Stato non fa pedagogia, distribuisce denaro ma non aiuta a usarlo in modo proficuo, non aiuta a cambiar vita chi ha bisogno di cambiarla. Mentre il volontariato fa l’opposto: parte dalla persona e dai suoi bisogni. Dello Stato ci si deve servire quando non si può fare altrimenti. Ma quando c’è già qualcuno che fa e sa fare, ecco in che cosa consiste la sussidarietà: dargli una mano, non togliergli i fondi.
Purtroppo la cultura politica dei due partiti oggi al governo, agli antipodi su tante cose, è identica su un punto: lo statalismo, e cioè l’illusione che lo Stato sia l’unico modo di risolvere i problemi, quando è invece il problema. Ora che si avvicina il Natale, guardate il barbone che chiede l’elemosina sotto la vostra casa e chiedetevi chi vorreste che se ne occupasse: un impiegato del ministero del Lavoro o un volontario della Caritas?