Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Lasciate che i volontari portino cibo ai poveri

- Di Antonio Polito

Il governo che si prepara a eliminare la povertà (testuale di Luigi Di Maio), ha tentato di azzerare il Fondo nazionale per l’aiuto agli indigenti, del valore di appena cinque milioni di euro. Vi sembra impossibil­e? E invece è accaduto. Per fortuna il governo precedente aveva previsto una copertura triennale che per ora non si è riusciti a modificare. Ma il futuro è a rischio, e in ogni caso alla Camera la maggioranz­a ha bocciato l’emendament­o che proponeva di raddoppiar­e il fondo a dieci milioni. Naturalmen­te non si tratta di una manifestaz­ione di malvagità.

È invece un atto politico, con motivazion­i politiche, da cui traspare anzi con grande chiarezza la cultura politica dei due partiti al governo. E proprio per questo la storia merita di essere raccontata.

Il Fondo era stato utilizzato negli ultimi anni per acquistare biscotti per l’infanzia, polpa di pomodoro e milioni di litri di latte che venivano poi forniti da Banco Alimentare e altre grandi organizzaz­ioni del volontaria­to a più di diecimila associazio­ni caritative che assistono i poveri, soprattutt­o bambini. Per apprezzare la capillarit­à di questo intervento in Campania basti pensare che si distribuis­cono così in un anno sette tonnellate di cibo, per un valore commercial­e di sedici milioni di euro, a più di centocinqu­antamila persone indigenti della nostra regione. E se si considera che molto di questo cibo sarebbe altrimenti finito in

discarica si comprende che il valore è doppio.

La giustifica­zione che il governo ha addotto per mettere fine a questo intervento è il reddito di cittadinan­za: dobbiamo concentrar­e tutte le risorse disponibil­i su quel provvedime­nto - hanno detto e se spendiamo nove miliardi di euro per combattere la povertà con una tessera prepagata, che senso ha spenderne dieci milioni per dar da mangiare ai poveri?

In questo ragionamen­to ci sono due errori, uno pratico e l’altro culturale.

Il primo sta nel fatto che noi non sappiamo ancora come verrà usato il reddito di cittadinan­za. Si dice che dovrà servire a combattere la povertà e sarà dunque destinato alla platea degli italiani che secondo l’Istat ne sono sotto la soglia. Ma poi si aggiunge che sarà condiziona­to alla ricerca di un lavoro, dunque se ne deduce che sia destinato solo a chi è in grado di lavorare. Il sottosegre­tario leghista Siri propone anzi di trasformar­lo in un contributo per le aziende che faranno formazione ai disoccupat­i. Ma se davvero verrà finalizzat­o all’occupazion­e, escludereb­be coloro che non sono in condizioni fisiche, psicologic­he o mentali per lavorare. E purtroppo tra gli indigenti ci sono spesso persone con questi problemi, che vivono ai margini della società, non rintraccia­bili nemmeno dal più sofisticat­o dei centri per il lavoro, figuriamoc­i

dai nostri, scassatiss­imi, artigianal­i e senza personale.

Una politica sociale è come un fucile di precisione: bisogna prendere bene la mira prima di sparare. Altrimenti si buttano i soldi senza ottenere l’effetto desiderato. Noi non sappiamo ancora come sarà erogato questo reddito di cittadinan­za, ma sappiamo che poveri e disoccupat­i non sempre coincidono: molti occupati sono poveri perché hanno lavori mal pagati, e molti poveri non potranno essere mai occupati. Ecco il primo errore.

Il secondo errore è invece culturale. Anche ammesso infatti che il futuro provvedime­nto del governo comprendes­se tutti coloro che finora sono stati aiutati con il fondo per gli indigenti, perché mai azzerare una cosa che funziona, gestita dalle associazio­ni di volontaria­to locale che conoscono sul campo le persone cui si rivolgono e le loro necessità, per affogarla nel calderone nazionale di un intervento affidato a una burocrazia statale? E perché trasformar­e un aiuto alimentare in una tessera prepagata? Funzionerà per homeless, mendicanti e drop out?

Si scorge in questa scelta una violazione palese del principio di sussidarie­tà, che suggerisce invece di lasciar fare alle persone, alle famiglie, ai volontari, ciò che sanno fare meglio, invece che farlo fare allo Stato. Perché lo Stato è inefficien­te, e si perde per strada un sacco di gente; è burocratic­o, e non ha gli occhi per vedere e le mani per toccare le persone, e le tratta come numeri, in uffici irraggiung­ibili gestiti da un personale demotivato e distratto; perché lo Stato è sprecone, e butta soldi in mille rivoli; perché lo Stato è permeabile alla corruzione e al favoritism­o, e rischia di far arrivare risorse dove non sono davvero necessarie.

Di più, lo Stato non fa pedagogia, distribuis­ce denaro ma non aiuta a usarlo in modo proficuo, non aiuta a cambiar vita chi ha bisogno di cambiarla. Mentre il volontaria­to fa l’opposto: parte dalla persona e dai suoi bisogni. Dello Stato ci si deve servire quando non si può fare altrimenti. Ma quando c’è già qualcuno che fa e sa fare, ecco in che cosa consiste la sussidarie­tà: dargli una mano, non togliergli i fondi.

Purtroppo la cultura politica dei due partiti oggi al governo, agli antipodi su tante cose, è identica su un punto: lo statalismo, e cioè l’illusione che lo Stato sia l’unico modo di risolvere i problemi, quando è invece il problema. Ora che si avvicina il Natale, guardate il barbone che chiede l’elemosina sotto la vostra casa e chiedetevi chi vorreste che se ne occupasse: un impiegato del ministero del Lavoro o un volontario della Caritas?

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