Corriere del Mezzogiorno (Campania)
LE COLPE DELLE ÉLITE CITTADINE
Da alcuni giorni Attilio Belli ha pubblicato un nuovo testo, Napoli. Cronaca di un’implosione annunciata. Il libro è una raccolta sistemica degli editoriali che Belli ha pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno in questi anni. Il titolo è già di per sé molto paradigmatico, perché racconta il collasso di una città che non è riuscita a darsi una visione organica e identitaria dopo la chiusura delle grandi fabbriche, in particolare dell’Italsider di Bagnoli. Uno degli errori capitali che Attilio Belli individua è il fallimento della pianificazione strategica soprattutto a livello di città metropolitana, come anche i due opposti ideologismi, sviluppisti vs ambientalisti, che hanno impedito una prassi di governo utile a portare Napoli nel secolo nuovo. Il libro di Belli è quindi un testo da leggere, spigoloso ma al tempo stesso agile, che ci aiuta a capire meglio perché Napoli non è riuscita a cogliere l’occasione postindustriale. La settimana scorsa sono stato invitato come relatore alla presentazione del libro, che si è tenuta nella sede della Uil Campania. Gli altri relatori erano persone a cui sono legato da amicizia antica e affetto sincero come Enrico Cardillo e Giovanni Sgambati, e personalità della società napoletana come Vito Grassi, Pasquale Belfiore e Bruno Discepolo. Al di là di alcune analisi notevoli, ho trovato la discussione un po’ autoreferenziale e passatista.
D’altronde è da quando ero al liceo che gli intellettuali e le classi dirigenti napoletani si interrogano sul futuro di Bagnoli, su quale sviluppo sia migliore per la zona orientale, e quale debba essere l’identità di Napoli nel secolo nuovo. E mentre la città è rimasta ferma a sognare roseti, eventi internazionali e porti turistici, le altre città nella sfida globale si sono trasformate, sono state ripensate e hanno trovato una nuova identità. Nel frattempo pezzi della città si sono autorganizzati, incanalando energie come è successo nella Sanità, oppure sfruttando «fortunate congiunzioni» istituzionali come nel caso delle Academy Apple e Cisco a San Giovanni a Teduccio, dove uomini illuminati come Giorgio Ventre hanno visto un seme di futuro.
Certamente sulla città bloccata, la Politica (tutta evidentemente) ha responsabilità enormi, ma se tutti i politici hanno fallito, mi chiedo se ci sia o meno una chiamata in correità delle élite cittadine, delle classi dirigenti, della borghesia napoletana (si sarebbe detto un tempo). Mentre a Torino si saldano ceti produttivi e opinione pubblica, portando in piazza decine di migliaia di persone a sostegno del Tav, a Napoli al massimo si producono qualche status su facebook o qualche lettera a un quotidiano sulle grate di Piazza del Plebiscito e sui pini di Posillipo, senza che tutto ciò abbia mai una ricaduta politica, sociale ed economica.
Fatte le debite eccezioni come l’Altra Napoli o la Fondazione Quartieri Spagnoli, dove sta l’etica della responsabilità della cosiddetta Napoli bene nel prendersi cura e interessarsi davvero della propria comunità? E mentre la borghesia cittadina si avvita in una discussione sempre più provinciale, sempre più chiusa, sempre più conservatrice, le cose migliori di questa città o vanno via o accadono lontane dal suo radar, ormai incapace di leggere la realtà.
È quindi anche colpa delle élite partenopee se Napoli poteva essere una nuova capitale del Mediterraneo per storia e capitale umano ed è diventata invece una città di provincia lungo l’asse del treno ad Alta velocità, dove l’unica identità che fa presa sono un posticcio revanscismo borbonico e l’orgoglio per la squadra di calcio.
Come nel finale del film di Ettore Scola «C’eravamo tanto amati», il futuro è già passato e non ce ne siamo nemmeno accorti.