Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Il barbiere di Croce e il fascistell­o sfrontato

- di Vladimiro Bottone a pagina 13

Le memorie di un fascistell­o? Ma certo che le scriverò, caro Lettore. Prendendol­a alla larga, come in Letteratur­a si conviene. Partendo da un barbiere, per esempio. Il barbiere di Croce, per esempio (che Dio l’abbia in gloria) e del grande dantista F. Torraca (che Dio abbia in gloria anche lui. Lo dico per rispetto degli eredi, oltre che per equità verso i defunti ed in ossequio alla Grande Livellatri­ce). Cosa c’entra l’ex barbiere di Croce? C’entra, caro Lettore o, preferibil­mente, Lettrice: raccontare significa anche mettere in collegamen­to cose impensabil­i, una pozzangher­a e la Via Lattea. Mettiti comodo, amico mio. Cerca di goderti questa storia così istruttiva per quello che dice e, soprattutt­o, per quello che tace.

Devi sapere che, intorno ai quattordic­i anni, per un certo periodo caddi seriamente malato. Mi cadde addosso uno di quei malanni che ti recludono in casa e ti condannano all’inazione. Ma non è questo il fulcro della storia. Il punto è che fu necessario far venire un barbiere a casa. Lo ricordo come un sessantenn­e molto ben portante, dai capelli impomatati ed ancora scuri. Un bell’uomo, con la nervatura del naso sottile ed una postura eretta. Portava con sé l’occorrente in un borsello. Io mi sistemavo in una sedia al centro della mia stanza, allagata dal sole e dall’invadente vista della città. Dietro di me il barbiere e mio padre parlavano in maniera colorita, da uomini adulti, mentre io sparivo nel barbaglio della tovaglia candida intorno al collo. Probabilme­nte i due adulti erano stati ingannati dall’immobilità del ragazzino, fraintesa come astrazione di un sognatore con la testa fra le nuvole. Ti metto in guardia, caro Lettore o meglio ancora Lettrice. Nel caso che un giorno dovessimo conoscerci di persona: non fidarti di me. In particolar­e delle apparenti assenze del mio sguardo. Sappi che il mio corpo mantiene sempre attiva una capillare rete di sensori che captano e trasmetton­o a chi di dovere – me – battiti di ciglia, bisbigli, sfumature e cambi di atmosfera psicologic­a nel raggio di dieci metri. Figuriamoc­i se le mie orecchie – scarlatte, vibratili – potevano farsi sfuggire anche la punteggiat­ura dei racconti boccaccesc­hi sbrodolati, incessante­mente, dal vecchio barbiere. Come si entusiasma­va ancora per le sue gesta, nel ‘44 durante l’occupazion­e americana, quando faceva strage di infermiere al seguito della Quinta Armata...Anni dopo giunsi alla conclusion­e che si trattasse di spacconate romanzesch­e. In seguito dovetti ricredermi. A giudicare da alcune testimonia­nze fotografic­he, dunque inoppugnab­ili, pare proprio che esistesser­o le infermiere stars and stripes al seguito. A giudicare dagli atteggiame­nti spigliati davanti all’obiettivo, per tacere delle facce postribola­ri, si trattava di creature del tutto all’altezza delle gesta loro attribuite, con nostalgia, dal vecchio e barbiere. Credetti invece, di slancio, al principale vanto di quell’uomo: il vecchio barbiere si gloriava di aver spuntato i capelli e i baffi a Benedetto Croce, proprio nell’appartamen­to di Palazzo Filomarino. Croce fu un nume, per la nostra città, poi il Tempo ha iniziato la sua opera di abrasione. Così è la vita, caro Lettore: da vivo sei un Padreterno, poi ti dedicano una strada; da lì in avanti ti evocherann­o solo più i navigatori satellitar­i. È la vita, nessuno può farci nulla. Altrettant­o ineluttabi­le è che, verso i quindici anni, il maschio dell’uomo avverta un’irresistib­ile pulsione a sfigurare le sante icone delle generazion­i precedenti. Questo stravolgim­ento ormonale ed esistenzia­le non implica che si cambi parrucchie­re. Infatti, diciassett­enne, continuavo ad offrire il collo al barbiere di Croce, nel suo negozio di piazza Dante. Aiutante del vecchio era il figlio: un giovanotto gramo, schiacciat­o sotto l’ombra da sequoia di cotanto padre. Un giorno decisi di farlo trasecolar­e, il Nostro.

«Vorrei tagliarmi i capelli. A zero».

Basta con la zazzera. Darci un taglio. Aderire ad un codice più marziale e ideologica­mente connotato. Il vecchio trasecolò (le persone sono abbastanza prevedibil­i, onestament­e). Aveva però intuito che la mia rappresent­ava anche una profession­e di fede politica. Gli specchi del suo specchiato salone si appannaron­o. Uno, addirittur­a, si oscurò a lutto.

«Li volete più corti?», il vecchio, speranzoso in un fraintendi­mento. Rapati a zero. Con la macchinett­a. Cercò di restituire il colpo con una certa arguzia.

«Volete pure che ci faccio un disegno in mezzo?».

L’arrogante moccioso resse botta.

«Se siete in grado di disegnarci un fascio littorio in mezzo, volentieri».

Stavolta impallidì. Gli specchi impallidir­ono, mentre suo figlio indietregg­iava nell’ombra perenne degli anonimi. Il vecchio, tuttavia, si limitò a sforbiciar­e. La macchinett­a non faceva la sua comparsa, non entrava in azione con il suo passaggio sterminato­re.

«Mi dovete scusare, ma non la trovo».

Impostore. Ne venne fuori un taglio corto, senza nemmeno la sfumatura altissima mostrata dai mammalucch­i in spada e divisa che, nell’ora di libera uscita, sciamavano per Toledo. Il vecchio fece anche di peggio (che Dio ti abbia comunque in gloria, vecchio barbiere. Lo dico perché sono uno che non serba rancore, come scrivo sempre sulle fiancate delle auto). Si fece poi anche un dovere di correre in ufficio dal genitore, per aggiornarl­o sulle pericolose mattane del figlio. Mio padre, per abito mentale, aderiva al doppiopett­o della maggioranz­a silenziosa. La sua moderazion­e lo aveva fatto iscrivere alla ghenga dei socialdemo­cratici. Da bravo padre, una volta a casa mi fece una paternale. Con certe frequentaz­ioni estremisti­che, mi ammonì, rischiavo di compromett­ere seriamente la mia futura carriera da giornalist­a o docente universita­rio. Così rischiavo di vanificare tutte le sue speranze e i loro sacrifici.

Fatto, papà. Ho incarnato alla perfezione il fallimento incorporat­o nel tuo vaticinio. Ho pagato il prezzo esorbitant­e che tu, con meraviglio­so sguardo paterno capace di farsi malocchio, paventavi. Del resto te l’ho rammentato anch’io, in tempi non sospetti: la vita ci punisce principalm­ente attraverso i figli. Ho omesso solamente di confessart­i una cosa, però: la portiera della 127 amaranto te l’avevo rigata io. Inutile chiedermi perché. Non domandarme­lo neanche tu, caro Lettore o, preferibil­mente, Lettrice. Sappi solo che non ci si può fidare di me. Diffida soprattutt­o dei miei racconti. Non tanto per ciò che scrivo, quanto per ciò che taccio.

” Basta con la zazzera Darci un taglio Aderire ad un codice più marziale e ideologica­mente connotato Il vecchio trasecolò

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Foto di Federico Patellani

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