Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Il barbiere di Croce e il fascistello sfrontato
Le memorie di un fascistello? Ma certo che le scriverò, caro Lettore. Prendendola alla larga, come in Letteratura si conviene. Partendo da un barbiere, per esempio. Il barbiere di Croce, per esempio (che Dio l’abbia in gloria) e del grande dantista F. Torraca (che Dio abbia in gloria anche lui. Lo dico per rispetto degli eredi, oltre che per equità verso i defunti ed in ossequio alla Grande Livellatrice). Cosa c’entra l’ex barbiere di Croce? C’entra, caro Lettore o, preferibilmente, Lettrice: raccontare significa anche mettere in collegamento cose impensabili, una pozzanghera e la Via Lattea. Mettiti comodo, amico mio. Cerca di goderti questa storia così istruttiva per quello che dice e, soprattutto, per quello che tace.
Devi sapere che, intorno ai quattordici anni, per un certo periodo caddi seriamente malato. Mi cadde addosso uno di quei malanni che ti recludono in casa e ti condannano all’inazione. Ma non è questo il fulcro della storia. Il punto è che fu necessario far venire un barbiere a casa. Lo ricordo come un sessantenne molto ben portante, dai capelli impomatati ed ancora scuri. Un bell’uomo, con la nervatura del naso sottile ed una postura eretta. Portava con sé l’occorrente in un borsello. Io mi sistemavo in una sedia al centro della mia stanza, allagata dal sole e dall’invadente vista della città. Dietro di me il barbiere e mio padre parlavano in maniera colorita, da uomini adulti, mentre io sparivo nel barbaglio della tovaglia candida intorno al collo. Probabilmente i due adulti erano stati ingannati dall’immobilità del ragazzino, fraintesa come astrazione di un sognatore con la testa fra le nuvole. Ti metto in guardia, caro Lettore o meglio ancora Lettrice. Nel caso che un giorno dovessimo conoscerci di persona: non fidarti di me. In particolare delle apparenti assenze del mio sguardo. Sappi che il mio corpo mantiene sempre attiva una capillare rete di sensori che captano e trasmettono a chi di dovere – me – battiti di ciglia, bisbigli, sfumature e cambi di atmosfera psicologica nel raggio di dieci metri. Figuriamoci se le mie orecchie – scarlatte, vibratili – potevano farsi sfuggire anche la punteggiatura dei racconti boccacceschi sbrodolati, incessantemente, dal vecchio barbiere. Come si entusiasmava ancora per le sue gesta, nel ‘44 durante l’occupazione americana, quando faceva strage di infermiere al seguito della Quinta Armata...Anni dopo giunsi alla conclusione che si trattasse di spacconate romanzesche. In seguito dovetti ricredermi. A giudicare da alcune testimonianze fotografiche, dunque inoppugnabili, pare proprio che esistessero le infermiere stars and stripes al seguito. A giudicare dagli atteggiamenti spigliati davanti all’obiettivo, per tacere delle facce postribolari, si trattava di creature del tutto all’altezza delle gesta loro attribuite, con nostalgia, dal vecchio e barbiere. Credetti invece, di slancio, al principale vanto di quell’uomo: il vecchio barbiere si gloriava di aver spuntato i capelli e i baffi a Benedetto Croce, proprio nell’appartamento di Palazzo Filomarino. Croce fu un nume, per la nostra città, poi il Tempo ha iniziato la sua opera di abrasione. Così è la vita, caro Lettore: da vivo sei un Padreterno, poi ti dedicano una strada; da lì in avanti ti evocheranno solo più i navigatori satellitari. È la vita, nessuno può farci nulla. Altrettanto ineluttabile è che, verso i quindici anni, il maschio dell’uomo avverta un’irresistibile pulsione a sfigurare le sante icone delle generazioni precedenti. Questo stravolgimento ormonale ed esistenziale non implica che si cambi parrucchiere. Infatti, diciassettenne, continuavo ad offrire il collo al barbiere di Croce, nel suo negozio di piazza Dante. Aiutante del vecchio era il figlio: un giovanotto gramo, schiacciato sotto l’ombra da sequoia di cotanto padre. Un giorno decisi di farlo trasecolare, il Nostro.
«Vorrei tagliarmi i capelli. A zero».
Basta con la zazzera. Darci un taglio. Aderire ad un codice più marziale e ideologicamente connotato. Il vecchio trasecolò (le persone sono abbastanza prevedibili, onestamente). Aveva però intuito che la mia rappresentava anche una professione di fede politica. Gli specchi del suo specchiato salone si appannarono. Uno, addirittura, si oscurò a lutto.
«Li volete più corti?», il vecchio, speranzoso in un fraintendimento. Rapati a zero. Con la macchinetta. Cercò di restituire il colpo con una certa arguzia.
«Volete pure che ci faccio un disegno in mezzo?».
L’arrogante moccioso resse botta.
«Se siete in grado di disegnarci un fascio littorio in mezzo, volentieri».
Stavolta impallidì. Gli specchi impallidirono, mentre suo figlio indietreggiava nell’ombra perenne degli anonimi. Il vecchio, tuttavia, si limitò a sforbiciare. La macchinetta non faceva la sua comparsa, non entrava in azione con il suo passaggio sterminatore.
«Mi dovete scusare, ma non la trovo».
Impostore. Ne venne fuori un taglio corto, senza nemmeno la sfumatura altissima mostrata dai mammalucchi in spada e divisa che, nell’ora di libera uscita, sciamavano per Toledo. Il vecchio fece anche di peggio (che Dio ti abbia comunque in gloria, vecchio barbiere. Lo dico perché sono uno che non serba rancore, come scrivo sempre sulle fiancate delle auto). Si fece poi anche un dovere di correre in ufficio dal genitore, per aggiornarlo sulle pericolose mattane del figlio. Mio padre, per abito mentale, aderiva al doppiopetto della maggioranza silenziosa. La sua moderazione lo aveva fatto iscrivere alla ghenga dei socialdemocratici. Da bravo padre, una volta a casa mi fece una paternale. Con certe frequentazioni estremistiche, mi ammonì, rischiavo di compromettere seriamente la mia futura carriera da giornalista o docente universitario. Così rischiavo di vanificare tutte le sue speranze e i loro sacrifici.
Fatto, papà. Ho incarnato alla perfezione il fallimento incorporato nel tuo vaticinio. Ho pagato il prezzo esorbitante che tu, con meraviglioso sguardo paterno capace di farsi malocchio, paventavi. Del resto te l’ho rammentato anch’io, in tempi non sospetti: la vita ci punisce principalmente attraverso i figli. Ho omesso solamente di confessarti una cosa, però: la portiera della 127 amaranto te l’avevo rigata io. Inutile chiedermi perché. Non domandarmelo neanche tu, caro Lettore o, preferibilmente, Lettrice. Sappi solo che non ci si può fidare di me. Diffida soprattutto dei miei racconti. Non tanto per ciò che scrivo, quanto per ciò che taccio.
” Basta con la zazzera Darci un taglio Aderire ad un codice più marziale e ideologicamente connotato Il vecchio trasecolò