Corriere del Mezzogiorno (Campania)
La scelta coraggiosa di una madre ferita
Una storia è quello che noi vogliamo raccontare, non quello che ci viene sottratto. Esiste una linea sottile ma netta: da una parte la narrazione, dall’altra il saccheggio. Quello che pubblichiamo sui social, quello che scriviamo in bacheca, gli abiti che indossiamo per andare a lavorare, la faccia che indossiamo la mattina quando mettiamo piede fuori dall’ascensore.
È la narrazione che ognuno di noi decide, più o meno consapevolmente, di offrire di se stesso. E ognuno dovrebbe poter restare in possesso dei «diritti d’autore» della propria storia, della propria faccia.
Tiziana Cantone non ha avuto questa possibilità. Qualcuno ha violato la linea netta e sottile e ha depredato il suo privato. Da quando sue immagini private sono state diffuse in rete e sono diventate virali, passate sotto gli occhi di migliaia di persone, la sua vita si è incrinata, lei ha perso possesso della sua narrazione, della possibilità di raccontarsi, di mostrarsi o nascondersi, di ricordare o dimenticare. È stata letteralmente schiacciata dalla vergogna, e, dopo aver inutilmente tentato di far rimuovere i video da Internet, il 13 settembre del 2016, un anno circa dopo la diffusione di quelle immagini, è stata trovata impiccata nella cantinetta della villa di famiglia a Mugnano.
La sua drammatica storia ora diventerà un docufilm per Netflix, che seguirà con le sue telecamere tutte le fasi del processo — che avrà inizio il 12 febbraio — a carico di Sergio Di Palo, l’imprenditore napoletano all’epoca compagno della Cantone. È proprio la madre della ragazza, Maria Teresa Giglio, a darne la notizia con la speranza che documentare la storia di sua figlia con l’ausilio della televisione possa contribuire nella battaglia per la tutela dei diritti alla privacy, all’oblio e contro il cyberbullismo. Tutta la parabola della giovane donna napoletana sembra inscriversi tra due cicli di immagini. Da un lato quelle sue, private, intime, violate e smerciate sulla rete, che hanno innescato la macchina della vergogna e della colpa; dall’altro quelle che saranno riprese, con il consenso dei familiari, con lo scopo di smontare il sadico congegno che ha divorato la sua vita.
In mezzo lei. Una ragazza normale, con una sfera privata e una sfera pubblica. Come ognuno di noi. Con un sorriso per le fotografie e per i selfie e un sorriso per la famiglia, per l’amore, per l’intimità. Nessuno dovrebbe poter conoscere tutti i nostri sorrisi, se non gli sono destinati. Nessuno dovrebbe desiderare di non aver sorriso. Nessuno dovrebbe pentirsi per tutta la vita di aver detto sì, in un momento, per una persona, per una scelta personale. Ci sono parole, gesti, smorfie, espressioni che sono destinati a un unico utente o a un pubblico ristrettissimo e selezionato.
I familiari di Tiziana hanno voluto affidarsi proprio ai media per ristabilire la verità e risarcire la dignità lesa. Occhio per occhio, dente per dente. Immagine per immagine. Per mostrare e dimostrare la verità. Per riappropriarsi del diritto alla narrazione. Le immagini della colpa e quelle del risarcimento: in nessuno dei due casi purtroppo Tiziana ha avuto la possibilità di scegliere se mostrarle oppure no. La scelta, coraggiosa e difficile, l’ha fatta, in quest’ultimo caso, sua madre che ha inteso, convocando le telecamere a testimoniare la storia della propria figlia, trasformare il mezzo in messaggio, affinché quello che è stato non si ripeta più. Per tutelare la libertà di ognuno a difendere il proprio sorriso.