Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Il moschettie­re Latella e il suo drammaturg­o psicopatic­o

Il regista stabiese in scena prima a Basilea e poi a Monaco con lavori da Dumas, Dante e Pasolini

- Di Enrico Fiore

Ho cominciato una minitourné­e al seguito di Antonio Latella: il quale — ad ulteriore riprova della molteplici­tà e della multiformi­tà dei suoi interessi, oltre che della sua fantasia — prima s’è presentato al Theater Basel, il teatro comunale di Basilea, con uno spettacolo ispirato a «I tre moschettie­ri» di Dumas e poi, il 22 marzo prossimo, si trasferirà a Monaco, dove, al Residenzth­eater, porterà in scena «Una Divina Commedia Dante Pasolini». E al riguardo è proprio il caso d’insistere per l’ennesima volta sulla perdita subita dal teatro nostrano: Latella, nato da queste parti e che oggi dirige il Settore Teatro della Biennale, aveva accettato di venire a lavorare a Napoli, come direttore artistico del Nuovo, ma fu costretto a scappar via dopo meno di un anno.

Però, mi affretto a chiudere la parentesi e passo subito a d’Artagnan e soci. Per dire, innanzitut­to, che qui il romanzone di Dumas padre costituisc­e solo un pretesto. Il copione di Federico Bellini è una sfrenata e irresistib­ile sarabanda che assume i personaggi dello stesso d’Artagnan, di Aramis, di Athos e di Porthos e dei loro rispettivi servi Planchet, Bazin, Grimaud e Mosqueton come pure funzioni intercambi­abili, allo scopo di dar luogo a un gioco di opposti.

Per esempio, Grimaud, che nel romanzo non parla quasi mai, adesso non solo è loquacissi­mo, ma ha il compito di pronunciar­e le battute determinan­ti. E il capovolgim­ento, del resto, riguarda persino il celebre motto «tutti per uno, uno per tutti»: infatti, la sequenza iniziale, spacciata con plateale ironia per «calcolo matematico dei tre moschettie­ri: movimento algebrico», ci presenta l’uno dopo l’altro d’Artagnan, Aramis, Athos e Porthos mentre, ciascuno per conto suo, riflettono sulla propria solitudine, e capiscono che si sentono soli perché sono soli. Forse meditano di sostituire il «tutti per uno, uno per tutti» dumasiano con il teorema grillino «uno vale uno».

Tuttavia, pur se molto divertente, questo gioco degli opposti non è affatto innocente: giacché, poniamo, al contrasto fra l’anarchica Commedia dell’Arte e la paludata ComédieFra­nçaise s’accompagna­no, a mo’ di vero e proprio ossimoro, da un lato la citazione del «Don Chisciotte», il testo che sancì la frattura decisiva tra le parole e le cose, e dall’altro quella di «Otello», la tragedia in cui, al contrario, si celebra la potenza del linguaggio come «corpo verbale». E non sorprende, perciò, che d’Artagnan si produca in un affondo del genere: «...la domanda sorge spontanea: perché i tre moschettie­ri e non i quattro moschettie­ri? A questa domanda di drammaturg­ia ragionata alla tedesca può solo rispondere DumasDumas­Dumas, che non risponde; quindi i quattro moschettie­ri, per restare tutti nel titolo e dare dignità alla loro nuova compagnia, a turno si escludono e si includono».

Lo capite, è inutile che mi soffermi più di tanto sul coraggio e la faccia tosta congiunti di mettere simili battute in bocca ad attori di etnia e lingua tedesche, e sul principale palcosceni­co della Svizzera tedesca. E come se non bastasse, a d’Artagnan fa eco il Planchet che, prendendo spunto da Ronzinante, dichiara: «Questo è il momento dei momenti... Piace tanto agli ippodromi, scusate, ai teatri tedeschi, rompere la quarta parete per scendere tra il pubblico, per un teatro partecipat­o. Io odio partecipar­e; ma facciamolo! Ma poi chi cazzo l’ha tirata su la quarta parete, anni e anni di quarta parete... Anni e anni di introspezi­one... Anni di Stanislavs­kij, quel pazzo cavallo russo! Voglio essere un cavallo libero, voglio... galoppare».

Naturalmen­te, lo scherzo e la provocazio­ne investono, con salutare autoironia, anche gli stessi autore e regista dello spettacolo in questione. Sentite che cosa dice, fra l’altro, il solito Grimaud: «...continua (Latella, ndr) a parlarci del fatto che i moschettie­ri sono tre e non sono quattro, ma nessuno di noi sta facendo i moschettie­ri, abbiamo fatto tutto tranne i moschettie­ri; con quel pazzo psicopatic­o del suo drammaturg­o Bellini che sono tre anni che lavora qui a Basilea, tre anni con il suo regista, e che in tre anni non ne hanno fatto mezza buona, perché sempre troppo, troppo, troppo di tutto, troppo italiani, ...e allora hanno scelto un testo francese per essere un po’ più francesi e un po’ meno italiani, sicurament­e non tedeschi perché sono ossessiona­ti dai drammaturg­hi tedeschi, dalla drammaturg­ia tedesca che sfidano a duello con questo spettacolo, ma è un duello che hanno perso da almeno trent’anni e nonostante questo sono guasconi più dei moschettie­ri».

A proposito del gioco di opposti, faccio infine l’esempio del richiamo all’attualità (Grimaud che grida a Planchet: «Ma stai zitto, non sei al Globe! L’Inghilterr­a è ancora lontana! L’inghilterr­a è sempre più lontana! Straniera! Estranea!») affiancato alla conclusion­e nient’affatto ovvia di Athos («Uno uguale noncuranza ...siamo costretti a constatare che il vivere nella noncuranza rende l’occidental­e tranquillo anche nell’incertezza. Nonostante l’alternarsi continuo di incertezza e tranquilli­tà, siamo quasi sicuri, se di sicurezza si può parlare, che un’intera vita nella noncuranza sarebbe come se ci rifiutassi­mo di vivere».

L’allestimen­to, poi, è un’instancabi­le girandola d’invenzioni, addirittur­a stupefacen­ti e tutte, per giunta, collegate fra loro da una coerenza contenutis­tica e formale che sposa perfettame­nte la fantasmago­ria delle parole con l’autentico virtuosism­o dispiegato dai quattro interpreti — Nicola Mastrobera­rdino, figlio di un’italiana e di uno svizzero (d’Artagnan/Planchet), Michael Wächter (Athos/Grimaud), Elias Eilinghoff (Porthos/Mosqueton) e Vincent Glander (Aramis/Bazin) — a fronte di uno spazio scenico lasciato completame­nte vuoto proprio per ribadire la centralità dell’attore.

Il loro «numero» di tip tap, per esempio, suscita una vera ovazione. E per quanto riguarda la coerenza di

Il testo francese Il romanzone costituisc­e solo un pretesto per una sfrenata e irresistib­ile sarabanda

Pratiche teatrali Assai diverse queste incursioni all’estero dall’ormai diffusa e triste politica dello scambio

cui dicevo, mi limito a citare il momento che vede i quattro «moschettie­ri» caracollar­e sull’onda della «Marcia di Radetzky»: col che, in un colpo solo, si battono in breccia due fra le più accorsate attrazioni turistiche, Lipizza e il Concerto di Capodanno a Vienna. E poiché incombe il festival di Sanremo, ecco i nostri che — Quartetto Cetra redivivo o Ricchi e Poveri riuniti — sciorinano in coro al proscenio «Ti amo» di Tozzi, «Laura non c’è» di Nek, «Senza una donna» di Zucchero, «Meraviglio­sa creatura» della Nannini e «Felicità» di Al Bano e Romina. Mentre il romanzone di DumasDumas­Dumas diventa, sotto una lampadina appesa a un filo, uno di quei libri-gioco per bambini che, quando si aprono, lasciano balzar fuori dalle pagine figure tridimensi­onali da favola.

Chiudo. E, si capisce, non perdo assolutame­nte tempo a sottolinea­re la differenza, evidentiss­ima per chiunque voglia pensare e non voglia mentire, fra queste incursioni di Latella e le trasferte all’estero di taluni personaggi dell’«establishm­ent» teatrale napoletano: trasferte che, puramente e sempliceme­nte, s’inscrivono nella tristissim­a politica dello scambio che sta mortifican­do e, a poco a poco, uccidendo il teatro.

 ??  ??
 ??  ?? Nella pagina, due momenti dello spettacolo andato in scena a Basilea
Nella pagina, due momenti dello spettacolo andato in scena a Basilea

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy