Corriere del Mezzogiorno (Campania)
La riforma
Attenzione però a prendere la questione sottogamba, perché quella riforma non era affatto roba da poco, e i suoi effetti non avrebbero tardato a farsi sentire: la spesa sanitaria, insieme a quella pensionistica (i due asset del welfare nazionale) costituiva (e costituisce ancora) la spesa pubblica più cospicua.
La riforma del titolo V venne illustrata come una opportunità per le Regioni che, gestendo da sole la spesa e gli investimenti in sanità avrebbero potuto amministrare al meglio le risorse che lo Stato avrebbe loro erogato secondo le rispettive necessità. Com’è andata poi effettivamente a finire è materia da libri di storia.
La spesa sanitaria, sottratta al controllo di un unico decisore di spesa (vale a dire il governo centrale) lievitò fino a raddoppiare in un decennio. Con la moltiplicazione dei centri di spesa — va da sé — si moltiplicarono anche i rischi di corruttela. Le regioni virtuose continuarono a lavorare bene e quelle che erano poco virtuose finirono commissariate in pochi anni, dal momento che la loro spesa finì fuori controllo e tracimò ben oltre i budget previsti e approvati.
I dolorosi e inevitabili piani di rientro finirono per ritorcersi inevitabilmente sugli ammalati, a causa della riduzione dell’erogazione dei servizi e della loro perdita di qualità. Il ministero della salute diventò in breve un centro che dettava unicamente politiche di indirizzo, e il tavolo di trattativa stato regioni (che doveva essere il momento di confronto e di sintesi) divenne il muro del pianto dove si arenavano le richieste di investimenti delle maggiori Asl regionali.
Il vero danno però fu un altro. Con un simile sistema, il servizio sanitario nazionale, così come immaginato dalla riforma del 1978, venne smembrato e parcellizzato in una ventina di servizi sanitari regionali, ciascuno dei quali sovrano nelle scelte gestionali. Dunque, a chi capitava in sorte di risiedere in regioni virtuose veniva garantita una sanità funzionante e in regola e aveva accesso alle cure migliori. Gli altri erano nei guai, abbandonati a sé stessi.
È evidente che la disparità di trattamento costituiva di fatto un vulnus costituzionale, poiché minava (e continua a farlo) due principi fondamentali della nostra Carta, quello che garantisce a tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro condizione sociale, l’accesso alle migliori cure possibili e il principio secondo cui tutti i cittadini sono uguali e hanno gli stessi diritti.
La lezione, durissima, di quella riforma sbagliata sembra non essere bastata. Davanti alla possibilità di correggere quella stortura, e rimettere mano al titolo V, come si riprometteva di fare il referendum voluto da Renzi, l’elettorato si è espresso come ricordiamo. Il “no” ha prevalso, la maggioranza ha preferito non cambiare, ha detto che va bene così. Ora, per quanto si possa dubitare che le conseguenze del mantenimento dello status quo fossero davvero chiare a tutti, non resta che accettare l’esito.
Tuttavia viene da chiedersi come mai la lezione non sia bastata.
Il referendum proposto dalla Lombardia e dal Veneto va nella stessa direzione. Le macroregioni sono esattamente questo: Lombardia, Veneto ed Emilia (che si è accodata alla fine) chiedono che le tasse che i cittadini pagano vengano impegnate nella stessa area. Tutto questo a scapito del resto del paese, come ricordava Giuseppe Ossorio su questo giornale l’altro giorno. In sintesi vuol dire che le regioni ricche diventeranno più ricche e quelle povere rischieranno la stagnazione nella migliore delle ipotesi. È il federalismo fiscale, voluto ovviamente dalla Lega ma che trova il sostegno anche delle industrie del nord, nord est, la locomotiva economica del paese, ansiose di impegnare nuove risorse nella sfida manifatturiera con la vicina Germania.
E il Mezzogiorno? E le promesse di investimenti, di ripresa, di rilancio? Davanti alla sfida a cui è chiamato suo malgrado, il Sud può continuarsi a guardarsi alo specchio senza raccontarsi come stanno davvero le cose (come paventava Marco Demarco l’altro ieri) oppure provare a raccogliere la sfida e (con l’aiuto dell’Europa) immaginare macro regioni meridionali impegnate nella valorizzazione e nel rilancio dei territori. È quello che ha provato a immaginare il governatore della Campania.
Si tratta di capire se il Sud sarà in grado di superare la sua eterna vocazione all’anarchia e a presentarsi alle sfide in ordine sciolto, oppure se coglierà questa rischiosissima sfida come ultima, possibile opportunità prima di vedere un’Italia definitivamente tagliata in due all’altezza del Garigliano.