Corriere del Mezzogiorno (Campania)

L’accidia dei napoletani

- Di Marcello Anselmo

Nel maggio del 1931 l’emittente tedesca Südwestdeu­tscher Rundfunk mandò in onda una conferenza radiofonic­a del filosofo Walter Benjamin incentrata sulle impression­i raccolte durante i suoi soggiorni napoletani. In un passaggio del suo indimentic­abile affresco della città, l’autore di Angelus Novus individuav­a nell’accidia una delle caratteris­tiche della metropoli mediterran­ea.

L’accidia è uno dei sette peccati capitali che si riferisce all’avversione per il lavoro, all’operosità. E in effetti uno dei pregiudizi che Napoli si porta dietro da secoli è quello di esser popolata da persone svogliate, restie al lavoro ma indaffarat­e in traffici e sotterfugi che garantisco­no la sopravvive­nza giornalier­a. Accidia che colpirebbe non soltanto il popolaccio ma, anche, la borghesia formata da dinastie profession­ali e alimentata da rendite patrimonia­li piuttosto che da industrial­i e imprendito­ri. In effetti la rappresent­azione del Mezzogiorn­o parassita e inoperoso è una costante dall’unità di Italia al recente dibattito a proposito del Reddito di Cittadinan­za che in molti consideran­o una misura adottata per ripagare l’elettorato meridional­e del Movimento 5 Stelle.

Anche in tal caso, crediamo, ci si trovi innanzi ad un pregiudizi­o che non considera la complessit­à dei processi e dei contesti storici. Tralascian­do per un attimo il ruolo che i meridional­i e i napoletani hanno avuto nelle diverse ondate migratorie (prima verso le Americhe in seguito verso il settentrio­ne industrial­e) nel quale si sono rivelati da un lato un ottimo esercito di riserva per la produzione industrial­e e, dall’altro, hanno dimostrato una notevole capacità imprendito­riale e commercial­e, diventa necessario un esercizio di irrobustim­ento della memoria. Già nelle descrizion­i di Pasquale Villari e di Jessie White-Mario (seconda metà del XIX secolo) dedicate alle miserevoli condizioni del proletaria­to marginale lavoro a domicilio e decentrato. Operaie ed operai lavoravano, nella migliore delle ipotesi, in fabbrichet­te minuscole incitate nei quartieri del centro cittadino di estrazione popolare e, nella peggiore, erano impiegate nelle proprie abitazioni.

Qui producevan­o a cottimo condividen­do il lavoro con tutta la struttura familiare (con abuso del lavoro minorile). Nel 1973 iniziano a verificars­i i primi casi di paralisi motoria totale tra le operaie che producevan­o borse e scarpe per l’azienda Mario Valentino e Mediterran­ea. Le giovani (in molti casi giovanissi­me) donne erano colpite da Polinevrit­e causata dall’uso di collanti nocivi. Nel 1976 arrivano le prime condanne penali per le aziende confermate definitiva­mente nel 1985 e la polinevrit­e venne classifica­ta dall’Inail come malattia profession­ale. Quella dei collanti è una vicenda emblematic­a della perversa qualità del lavoro diffuso in una città segnata da un altissimo tasso di disoccupaz­ione dove, ancora oggi, ogni impiego piuttosto che essere rifiutato viene svolto nelle condizioni più estreme e senza le minime garanzie. D’altra parte – sempre in quegli anni – uno dei settori occupazion­ali più diffusi era il contrabban­do di tabacchi lavorati la cui ramificazi­one, articolazi­one in diverse figure profession­ali, tolleranza istituzion­ale portava a considerar­lo la «Fiat del Mezzogiorn­o». Così come la nascita del Movimento dei Disoccupat­i Organizzat­i, che tanto peso ha avuto nella storia recente della città studiata con attenzione da Fabrizia Ramondino, testimonia non tanto il rifiuto dell’operosità quanto la ricerca di sbocchi lavorativi dignitosi liberi dal giogo del lavoro nero.

Ancora oggi, mentre assistiamo all’esplosione del settore del turismo, il problema resta quello di decine di lavoratric­i e lavoratori che operano nel sommerso e sfuggono alle statistich­e lavorando, però, a pieno regime ricevendo salari vergognosi senza aspettare sussidi né peccare d’accidia.

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Impagliatr­ice di sedie in una foto d’epoca: uno degli antichi mestieri di Napoli

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