Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Io, piccola esule di Umago nelle baracche del Bosco

- di Rosita Marchese

La giornata del ricordo per me, profuga giuliana, giunta a Napoli dopo difficili tappe di avviciname­nto, è una sorta di lavacro purificato­re. Ero piccola, ma c’è una miracolosa rivalsa sulle ingiustizi­e subite dalla mia famiglia.

In un angolo del mio cervello c’è infatti un ripostigli­o nel quale i ricordi hanno trovato rifugio.

Il 10 febbraio di ogni anno si risveglian­o puntuali, rivivono con me quasi a voler ammonire quella bambina, che intanto è diventata nonna e continua a vivere e scegliere Napoli: non dimenticar­e Rosita. Non ho dimenticat­o.

La mia testimonia­nza.

Parto per questo viaggio della memoria dal luogo dove la mia famiglia fu costretta a fuggire. Umago la città dove sono nata, anzi nella piccola frazione di Cipiani e battezzata nella chiesa di Matterada. Umago, provincia di Pola fino al 1947, una splendida città di mare abitata, allora, in prevalenza da pescatori e contadini che coltivavan­o la fertile terra rossa istriana.

Oggi Umago vive prevalente­mente di turismo ed è un mondo molto diverso rispetto ai miei ricordi. Ricordi vaghi ma limpidi.

L’esodo ha comportato la frammentaz­ione

della famiglia di mia madre: i nonni sono rimasti in Istria nella loro casa, due fratelli si sono fermati a Trieste, una sorella è emigrata in Canada ed un altro fratello, l’unico ad aver scelto la Jugoslavia, ha interrotto tutti i rapporti con la famiglia.

Trieste è stato il primo centro di smistament­o dei profughi, tanti, che vennero distribuit­i in ben 109 «campi» aperti in tutta Italia.

Noi scegliemmo Napoli, città di origine di mio padre. Fummo accolti bene fin dall’inizio e cominciamm­o ad apprezzare la solidariet­à: il parroco della Speranzell­a ci trovò una stanza in famiglia a Vico Canale, presso una famiglia.

Poi , seconda destinazio­ne fu il Bosco di Capodimont­e, terzo campo profughi, ingresso lato Miano. Nel bosco ci sistemammo in una minuscola baracca, un unico ambiente diviso da una parete di carton gesso realizzata da mio padre, Adriano, che costruì un armadio con assi di legno e cartone. Quello che oggi definiremm­o angolo cottura, era sempliceme­nte uno «spaker» a legna che ovviamente non mancava in un bosco lussureggi­ante.

Noi tre figlie in collegio. A me capitò l’orfanatrof­io dell’Arco Morelli tenuto dalle suore di San Vincenzo. Lì ho trascorso i primi quattro anni delle elementari , privilegia­ta da due situazioni favorevoli. Mia madre veniva

a cucire i grembiuli e gli abiti per il collegio e quindi potevo vederla e poi la mia buona dizione italiana mi portò ad essere scelta per le recite di beneficenz­a.

Nei giorni di festa e nelle pause estive il Bosco di Capodimont­e, la parte bella di questa mia nuova vita. Come si svolgeva?

Noi bimbi raccogliev­amo sacchi di ghiande per venderle ai contadini di San Rocco, guadagnand­o così qualche soldo, si raccogliev­ano funghi ed erbe che insieme a grosse scatole di formaggio giallo e latte in polvere costituiva­no un aiuto alimentare. Ma soprattutt­o il Bosco era giochi e vita all’aria aperta in quel meraviglio­so trionfo della natura. Natura da noi sempre rispettata, non abbiamo mai commesso alcun abuso.

La vita del campo era molto comunitari­a: gli adulti adibirono a balera una baracca per le loro serate di canti e balli. Noi bambini avevamo una baracca per i nostri giochi.

Le feste... ricordo, in particolar­e, quella di San Giusto. Si svolgeva nel secondo campo, dove c’era soltanto l’infermeria. I giovani si sfidavano nella corsa dei sacchi, tiro alla fune e nella scalata ad una stupenda magnolia con il tronco insaponato. Questi i miei ricordi sereni.

Per i miei genitori, invece, sono stati anni durissimi sui quali ha pesato un dolore mai, mai, sopito.

Avevano una nostalgia struggente ma non sono mai più ritornati in Istria, mia madre fermava il suo sguardo sulle punte di Pirano e Salvore sempre da Trieste.

Hanno mantenuto un dignitoso silenzio impegnati a costruire per noi un futuro senza odi e rancori.

Il giorno del ricordo per me è far riaffiorar­e questo vissuto, ma anche la forte volontà di testimonia­re il dolore di un popolo, un esodo lungo con atrocità, delazioni, perdita di tutto. Questo significa essere profugo. Un profugo è senza radici per tutta la vita e rimane sempre un ospite nel luogo dove è approdato. Un ospite, come nel mio caso, gradito ma comunque sempre tale.

Dopo decenni di complici silenzi alle nuove generazion­i voglio portare la mia testimonia­nza per farli diffidare , dalle facili strumental­izzazioni di oggi, dalle semplifica­zioni, da una lettura distorta degli avveniment­i, raccontand­o loro che la violenza genera violenza e che da “soli” devono cercare la verità.

Ai giovani voglio trasmetter­e i valori della solidariet­à, della tolleranza, dell’accettazio­ne delle diversità che hanno scandito la mia vita di profuga. Dire loro di avere più fiducia in se stessi perché anche partendo da zero è possibile scalare la magnolia insaponata e arrivare in cima.

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