Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Dichiariam­o guerra alle armi da fuoco

- di Antonio Polito

Alla fine c’è la pistola. Come nella storia di Manuel, il giovane nuotatore la cui vita è stata letteralme­nte spezzata in due da un proiettile, all’altezza della schiena, in un bar della periferia romana. Una storia che noi napoletani conosciamo bene. L’abbiamo visto accadere dieci volte in due anni, una pallottola vagante che colpisce un innocente, e per tre volte le vittime erano bambini. Alla fine c’è la pistola. Perché le vite di questi ragazzi, spesso giovanissi­mi come nel caso delle baby gang, o più cresciutel­li come i due figuri che hanno sparato a Manuel, prima o poi arrivano lì.

Partono da un po’ di bullismo, qualche scazzottat­a, episodi di guapparia ma in realtà vigliacchi, perché spesso a danno di persone indifese, come il povero Arturo, lo studente accoltella­to in via Foria. Poi passano per quella specie di autobiogra­fia che sono i tatuaggi, vero e proprio testo culturale che può aiutarci a comprender­e l’iconografi­a da street gang.

E quasi sempre arrivano le droghe, leggere o pesanti, l’importante è che espandano l’io e lo facciano sentire forte, eccitato, invincibil­e, pronto a sfidare la morte come Scarface, non a caso diventato il personaggi­o culto di molti di questi giovani.

Ma poi, alla fine, c’è la pistola. Chi non ci arriva si salva, non compie il gesto estremo e se la cava rientrando nella vita normale. Ma tanti ragazzi ci arrivano, sempre di più. Si può anzi dire che rispetto a qualche decennio fa, quando pure c’erano i violenti e la camorra, la vera differenza oggi stia nella disponibil­ità e nella diffusione delle armi da fuoco, che possono rapidament­e trasformar­e un bulletto di periferia in un boss, o in un assassino, o in un cadavere.

Ma se la pistola è il rito di passaggio, il confine oltre il quale tutto è perso, mi domando se la nostra società e le nostre forze di polizia combattono con l’adeguata energia la battaglia contro la diffusione delle armi da fuoco. Dal punto di vista culturale dovremmo considerar­le come

la negazione della convivenza civile, e invece di recente sono sempre più viste come uno strumento utile per garantire sicurezza e fare da deterrente al crimine. Una ricerca del 2018 di Small Arms Survey (con sede a Ginevra), sostiene che nel nostro Paese ci sono 8,6 milioni di armi registrate, escludendo quelle in dotazione alle forze dell’ordine e ai militari. Altre stime le valutano fino a dodici milioni. Sono tante.

Però meno che in Francia o Germania, dove ci sono tre armi ogni dieci persone, e ancor meno che negli Usa, dove ci sono più armi che cittadini. C’è però una grande differenza in Italia rispetto ad altri paesi europei: l’esistenza di una malavita organizzat­a diffusa e pervasiva, e di un’ideologia e una estetica della violenza da essa veicolata, che rendono più facile per le armi finire nel mercato illegale delle matricole abrase e più seducente per i ragazzi la voglia di maneggiarn­e una, al fine di usarla anche solo simbolicam­ente come un accrescime­nto del proprio status

sociale. Al contrario, non è chiaro quanto impegno le forze dell’ordine e la magistratu­ra mettono nella repression­e del mercato illegale; se la consideran­o cioè davvero un’emergenza dell’ordine pubblico oppure sono distratti da mille altre incombenze. Il semplice fatto che non esistano statistich­e ufficiali ci fa purtroppo sospettare che il fenomeno sia fuori controllo.

Aggiungere­i un secondo aspetto cruciale. Ogni volta che un innocente finisce ferito da un’arma da fuoco, questo vuol dire che si è sparato in luoghi pubblici, frequentat­i da gente normale, spesso colta di sorpresa dagli eventi proprio perché convinta di trovarsi in un luogo sicuro. Ma in questi luoghi pubblici non c’era evidenteme­nte al momento dell’agguato o della «stesa» nessuna presenza pubblica, neanche simbolica, dello Stato e dei suoi presidi, che funzionass­e da deterrente. Se si può sparare in Piazza Trieste e Trento, a due passi dalla prefettura, o se si può sparare in un bar della Capitale, dove una coppia di ragazzi normali va a bere o a comprare le sigarette, vuol dire che il controllo del territorio è andato a farsi benedire. Là dove c’è una divisa, il malvivente non spara. Ma di divise ce ne sono troppo poche in giro.

Credo che il ministro degli interni Salvini debba cominciare a dare una grande attenzione a questi problemi. Non c’è niente come la storia di Elaine, l’ultima ragazza rimasta ferita a Napoli, o di Manuel, il ragazzo colpito a Roma, che possa scuotere la fiducia dei cittadini nella democrazia: il sentimento di essere indifesi, di trovarsi in uno stato hobbesiano di guerra di tutti contro tutti.

«Consegnate le armi», fu l’appello della Chiesa Napoletana rivolto ai camorristi e ai baby boss qualche anno fa, che produsse anche qualche effetto. Dovrebbe diventare l’obiettivo di un grande piano insieme culturale e repressivo, in tutta Italia ma specialmen­te a Napoli, la città oggi più pericolosa d’Italia.

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