Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Se l’odio diventa uno strumento di comunicazione di massa
di Maurizio de Giovanni
Vi odio. Vi odio tutti. Scegliete voi la forma in cui posso dirvelo, una forma il più possibile violenta e urticante, lesiva della vostra dignità e sovversiva dei valori che vi accomunano. Vi odio. Siete attratti, vero? State leggendo con curiosità. Volete sapere il perché, e poi vi schiererete in due fazioni, quelli che cominceranno a urlare ricambiando il mio odio e quelli che si diranno invece d’accordo con me.
E e si complimenteranno per aver finalmente messo a nudo con chiarezza parti oscure e magagne che, lo avete sempre sostenuto, verminavano sotto l’ipocrita superficie della vostra esistenza.
In ogni caso, io avrò ottenuto il mio scopo: si parlerà di me, su di me, con me. Il mio nome, la mia funzione saranno evidenti e io sarò riuscito nell’intento di sollevarmi dai qualunque, di emergere dal silenzio.
L’odio è diventato la migliore forma di comunicazione di massa. Ha trovato il suo territorio ideale, i social, che consentono a costo zero di amplificare la propria voce a dismisura e nel contempo di far girare il proprio volto e gli altri contenuti del profilo, andiamo a vedere chi è questo, ma come si permette lui che fa questo mestiere, che ascolta queste canzoni, che legge (o scrive) questi libri. Nel frattempo ci siamo andati, lo abbiamo conosciuto e ci abbiamo anche fatto amicizia, mettiamo un like così vediamo che altro dice, chi altro odia.
Senza odiare non siamo nessuno. Dobbiamo avercela con qualcuno, altrimenti vuol dire che non pensiamo e non sentiamo, se non odiamo siamo sicuramente ipocriti, peccato mortale senza remissione. Odiare è necessario per essere ascoltati. Le radio, le televisioni chiamano chi non ha peli sulla lingua, altrimenti sono banalità. E si perdona il reato, la diffamazione e l’insulto gratuito, non certo la banalità.
Ecco nascere la professione dell’odiatore.
Che non è solo il piccolo bastian contrario che all’interno del coro di quelli che compiangono la morte del laureato di colore suicida dice «uno di meno», ma anche chi ha l’astuzia di utilizzare la fotocamera del proprio cellulare come comizio permanente, come tribuna per parlare alla pancia dei propri elettori. Con me o contro di me, dice. È come abitare in casa di qualcuno, alla lunga ti piacerò, se mi guardi ogni giorno e più volte al giorno per la legge dei grandi numeri dirò qualcosa di così ovvio che sarai d’accordo con me nell’odiare qualcun altro.
Napoli e i napoletani sono, a titolo esemplificativo, ottimi bersagli. Alcuni commentatori e alcuni direttori di giornale hanno intuito che per il resto dell’Italia è abbastanza agevole immaginare un inferno abitato da diavoli, perché è un luogo pieno di peculiarità, nel bene e nel male. E peraltro Napoli e i napoletani hanno una caratteristica speciale che li rende perfetti per l’utilizzo dell’odio: reagiscono. Si lamentano, protestano;
hanno giornali e tv che ne accolgono le obiezioni. Quindi alzano polvere, consentono ulteriori polemiche. Offrono insomma un palcoscenico ideale che ha una durata maggiore rispetto a quanto accade ad altre vittime, più silenziose e meno reattive.
Il calcio, specchio triste delle deiezioni sociali, è ancora una volta emblematico dell’odio come comunicazione ideale. Scappano anche i cani, sono arrivati i napoletani, cantano le curve anche quando in campo non c’è niente di azzurro. E si invocano colera e Vesuvio, tema splendido che unisce tifoserie avverse sotto un’unica bandiera: quella dell’odio.
È sempre lo stesso odio, sapete. Quello del politico al telefonino, quello delle curve dello stadio, quello che porta a seguire chi ha urlato più forte con la bava alla bocca e gli occhi iniettati di sangue. Anche quello che vi ha portato a leggere fin qui, attratti dall’asserzione iniziale.
L’odio. Senza il quale nessuno ci ascolta più.