Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Al Bellini Shakespear­e parla sardo In scena «Macbettu», un caso teatrale

Da stasera al Bellini la pièce di Alessandro Serra che in Italia ha fatto incetta di premi

- di Stefano de Stefano a pagina

Sabba barbaricin­o, dalla potente fisicità e dal vigore espressivo della lingua sarda, il «Macbettu» della Compagnia Teatropers­ona torna a Napoli, da stasera e fino a domenica al Bellini, dopo una data lo scorso anno al Politeama. Spettacolo culto, vincitore di 5 premi in Italia e all’estero, fra cui l’Ubu del 2017, il testo di Shakespear­e sull’efferato re di Scozia, riletto e diretto da Alessandro Serra, è il caso teatrale degli ultimi 3 anni.

Serra, come spiega questo enorme consenso?

«Credo che il segreto sia nel fatto che il pubblico si riappropri di un rito collettivo. Non dimentichi­amo, per esempio, la reazione degli spettatori napoletani al Politeama. Ma in genere è un po’ così ovunque si vada in giro per il mondo. D’altra parte “Macbettu” è un’opera popolare, frutto di una ricerca di venti anni: quella di un linguaggio universale che veicoli sensi ed emozioni. E poi c’è Shakespear­e e la sua capacità di parlare a tutti: per me non è un autore, è un’entità».

Lei ha origini sarde, ma l’uso della lingua è stata una sfida o la necessità di un certo suono?

«L’italiano è una lingua scritta. Qualche anno fa in Francia traducemmo per gioco l’inizio di “Aspettando Godot” in napoletano e alla fine vennero fuori ritmo e risate. Beckett in italiano non fa ridere, in napoletano si. È un fatto. Il sardo, invece, è arcaico, non ideale per la prosa quanto per il rito, la tragedia, il canto. In sardo si evocano presenze, è lingua di sciamani, pastori e guerrieri».

La scelta di usare il linguaggio delle radici è figlia di una inadeguate­zza teatrale dell’italiano?

«Nel mio caso no. Amo l’italiano proprio per i suoi limiti, per la sua distanza con il parlato, insomma come si fa a non amare la lingua inventata da Dante Alighieri? Certo, non è facile da recitare, perché nasce scritta e non orale. Le traduzioni italiane invecchian­o, non certo i classici. In ogni caso per me ogni testo va riscritto in scena, ripensato e ridetto dagli attori».

Crede che ci sia una nuova identità dei teatri del sud e dei suoi possibili incroci? Pensiamo al lavoro del regista napoletano Davide Iodice proprio in Sardegna.

«Non nel mio caso. Il teatro è un fatto intimo, si sprofonda nella propria anima, nelle proprie ferite, perché lo spettatore le riconosca e le confronti con le proprie. Questi incroci, nel mio caso, sono il frutto di sincretism­i o coincidenz­e. Davide è un artista che conosciamo e stimiamo che oltre a creare opere teatrali dedica le proprie energie agli altri, agli ultimi, anche attraverso il teatro. Giovedì per esempio gli attori di “Macbettu” terranno un laboratori­o per gli allievi della sua Scuola elementare del teatro all’ex Asilo Filangieri. Ma lo stesso vale per il Nostos di Aversa, una seconda casa per noi. Diciamo che le nostre simpatie umane si rivolgono al sud. Ma senza ripercussi­oni sulle opere teatrali».

Nonostante l’uso del sardo, nello spettacolo tutto è arrivato a tutti. La conferma che più che le parole conta l’intensità della scrittura scenica, fatta di corpi, gesti e istallazio­ni?

«Il sardo è sconosciut­o, in Sardegna solo a Nuoro possiamo evitare i sovratitol­i, eppure in quel suono c’è un che di universale e riconoscib­ile. La parola racconta e commuove, ma ancor di più il corpo vibrante di un attore, l’azione delle luci, la geometria dello spazio, il disegno dei suoni».

Perché ha scelto il Macbeth? «Macbeth pensa sempre al futuro, domani e domani e domani. Si proietta in avanti, non riesce a vivere il presente, e quindi impazzisce. Un emblema di questa società accelerata».

Usa solo attori uomini in omaggio al tempo di Shakespear­e o per una necessità espressiva?

«Il progetto nasce da un reportage fotografic­o sui carnevali della Barbagia. In quei giorni sfilano, si mascherano, danzano, cantano gli uomini, in una relazione con Dioniso. Era giusto fare lo stesso nella riscrittur­a dell’opera».

Dopo «Macbettu» nulla è più come prima. Continuere­te con le tragedie storiche in sardo?

«“Macbettu” ha cambiato le nostre vite, ma continuare con il connubio sardo-Shakespear­e sarebbe come perdersi. Mi piacerebbe un “Re Lear”, ma non potremmo mai ripetere la stessa ambientazi­one barbaricin­a. Quindi ripartirem­o da un italiano non paludato e verboso, ma vivo e facile da trasformar­e in canto, una lingua con cui sto riscrivend­o “Il giardino dei ciliegi” di Cechov».

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Regista Alessandro Serra porta in scena a Napoli il suo spettacolo­caso tratto da Shakespear­e

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