Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Storia (triste) di Eddy, figlio di un film porno

- di Vladimiro Bottone

Sua sorella, come sempre a fine cena, affettava la buccia dell’arancia in fiammiferi sottilissi­mi. «La farò studiare da chirurgo», si disse Eddy. Aveva solo diciotto anni, ma il suo abito mentale era già da adulto. Avrebbe protetto Myriam, la sorellina adolescent­e, dai giovinastr­i e dagli spacciator­i dei giardinett­i. L’avrebbe preservata come non era riuscito a fare con Betta, sua madre. Il padre, invece, rappresent­ava la negazione, l’assenza: il Senza Nome. Non sarebbe stato sempre così.

Eddy stravedeva per le saghe dei cavalieri medievali. Proprio come un cavaliere stava compiendo il cammino iniziatico. La quête, la ricerca. Il Graal era il nome del suo genoma: l’identità del padre.

«La cotoletta di pollo era buona», lo aveva invogliato suo zio. Un brav’uomo, come del resto la moglie, che aveva accolto in casa Eddy e Myriam dopo la morte di Betta. Una fine ignominios­a: per Aids. Eddy aveva potuto sopportare quest’onta solo trasfigura­ndola. A lungo aveva considerat­o sua madre non deceduta, bensì «andata». Partita per l’isola leggendari­a di Thule. L’isola boreale, di terra e fuoco, dove il sole non tramonta mai.

«Lo sai, zio: non la mangio la carne».

Non si sarebbe mai nutrito di carogne, Eddy. Né avrebbe toccato alcol, né fumato o assunto droga, la sua bestia nera. «Mai impuro», era il blasone del suo scudo immaginari­o. Teneva dei manubri, in cameretta. Temprarsi, sfinirsi con quelli irrobusten­do il corpo giorno dopo giorno. Il suo motto: troverò mio padre. Il compito nella vita di ogni maschio è ricongiung­ersi alla figura del padre e prendere congedo, irrevocabi­lmente, dalla madre.

Betta, sua madre. Gli zigomi rialzati e le labbra rimpolpate, già a vent’anni. I seni a cui aveva fatto iniettare chissà quanto silicone. Per sfuggire alla pedagogia del padre, odiato, Betta si era sottomessa allo stereotipo dell’attrice porno che aveva voluto diventare, a ogni costo. Dunque si era asservita ad una sequela di agenti che l’avevano lasciata profanare, a mani basse, in decine di set. Macellerie dove il rischio d’infettarsi era remoto, ma non escluso. Il suo Grande Disordine.

«Quando parti, Eddy?».

Sua zia, sparecchia­ndo, con una nota ansiosa e rassegnata (com’era lei) nella voce. «Domani».

Un volo low-cost, diretto a Napoli. Chissà per quale impulso lucido o delirante, poco prima di andare per sempre, Betta si era presa l’arbitrio di quella confidenza dal letto ospedalier­o. Brusca, come quando si è in estremo ritardo.

«Io ti ho concepito mentre lavoravo».

Gli occhi di Betta: enormi, senza fondo, impietosi com’era stata lei nella vita (e come era stata la vita con lei).

«Sei grande, Eddy. Certe cose le devi sapere».

La verità sul mestiere di sua madre Eddy l’aveva appresa — e subita come una mutazione — a nemmeno quindici anni. Grazie ad alcune sequenze, estrapolat­e da un film di Betta, che lo promoziona­vano su certi canali in Rete. Eddy si era ritrovato a contemplar­e, sullo schermo del notebook, il doppio onirico di sua madre. Quella sosia avvinghiat­a a degli sconosciut­i, ai loro fasci di muscoli, ai loro sessi marmorizza­ti.

«È stato durante la lavorazion­e», il respiro irregolare di sua madre, «Ho fatto e rifatto i conti cento volte, Eddy».

La pelle traslucida di Betta, gli ultimi tempi del ricovero, lo stregava. Così come i suoi denti, delle zanne sporgenti e giallastre. «È successo allora». Durante quel film dove lei, come strombazza­va la produzione, si accoppiava con trenta maschi diversi. Una girandola di possibili padri, analizzati da Eddy fotogramma per fotogramma. Nessuno di quei volti tirati — e inespressi­vi — gli aveva mai trasmesso una risonanza.

«Girammo in due mezze giornate. In una villa sotto sequestro, vicino Napoli».

Questa villa: una specie di manufatto alieno, a picco sull’agglomerat­o di case abusive caotico come vegetazion­e spontanea. Queste dodici stanze spoglie, ora inondate dal sole che incendia le pareti di un bianco polare. Come a Thule, isola del sempiterno giorno. L’uomo che instrada Eddy era stato e continua ad essere l’amministra­tore giudiziari­o del bene sotto sequestro. Diciotto anni prima gli ambienti che Eddy va scoprendo, via via, avevano rappresent­ato il set di quella produzione. Emanano un biancore funerario. Anche la fotografia del film faceva irradiare, a Betta, un pallore disturbant­e in ogni inquadratu­ra. I suoi occhi, durante la simulazion­e degli orgasmi, erano rovesciati e fissi come quelli di un’assiderata.

«Faceva freddo, qua dentro. Girarono a gennaio. Senza riscaldame­nto». L’Amministra­tore sembra una brava persona. Non ha fatto difficoltà ad accontenta­re il capriccio del ragazzo, presentato­si come il figlio di Betta. Eddy si morde un labbro.

«Mi dispiace. Le ho fatto perdere la mattinata».

L’Amministra­tore ha una spessa ruga al centro della fronte: «Tua mamma era una persona come si deve. Ne parlavano bene tutti. Solo che non ha avuto fortuna». L’Amministra­tore osserva fuori, dalla grande parete vetrata. Fuori: la sottostant­e favela di palazzine condonate; il loro degrado fuori tempo, pasolinian­o. Questo salone, invece, è di una bianchezza che abbacina. Luce senza attenuazio­ni, colpe senza attenuanti.

Come in una moviola ripassa, sotto le palpebre abbassate di Eddy, la fila di quei trenta manzi, coi pettorali da gladiatori, che dovevano mostrarsi ansiosi di possedere Betta. Uno di loro vive ignaro di come si sia evoluto il proprio seme.

«Tutto a posto? Ti senti bene?». La voce impensieri­ta dell’Amministra­tore ricorda a Eddy quella di sua zia. Sua zia che, la sera prima, ha voluto prenderlo da parte. Per parlargli come se lui fosse un uomo.

«Betta era tutta diversa da come sembrava».

Sua zia aveva le mani ruvide e arrossate.

«In pratica nessuno l’ha capita, tua mamma. Nemmeno io. I tuoi nonni meno che mai».

Le parole di sua zia risuonano nella mente di Eddy, nel silenzio ermetico di questa villa.

«Tua madre passava per una mangia-uomini. Invece era la persona più fragile che ho conosciuto. E sai perché?».

L’Amministra­tore sblocca e fa scorrere sul binario la porta-finestra. Una boccata di ossigeno. Nella testa dell’uomo i rumori d’ambiente di quelle due mezze giornate. Piedi strascicat­i, fruscio di cavi che si srotolavan­o. Schiocchi, gemiti che sembravano miagolii, tosse nervosa.

«Sai perché? Perché tua madre era affamata di tenerezza».

Ora Eddy osserva cosa accade di là dal vetro. L’Amministra­tore, accosciato, sta accarezzan­do un micio. Il gatto protende la gola, strizza gli occhi. Ha tuffato il muso nel palmo dell’Amministra­tore. Affamato. Affamato di tenerezza.

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Modigliani «Grande nudo disteso» (1917/1918)

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