Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Storia (triste) di Eddy, figlio di un film porno
Sua sorella, come sempre a fine cena, affettava la buccia dell’arancia in fiammiferi sottilissimi. «La farò studiare da chirurgo», si disse Eddy. Aveva solo diciotto anni, ma il suo abito mentale era già da adulto. Avrebbe protetto Myriam, la sorellina adolescente, dai giovinastri e dagli spacciatori dei giardinetti. L’avrebbe preservata come non era riuscito a fare con Betta, sua madre. Il padre, invece, rappresentava la negazione, l’assenza: il Senza Nome. Non sarebbe stato sempre così.
Eddy stravedeva per le saghe dei cavalieri medievali. Proprio come un cavaliere stava compiendo il cammino iniziatico. La quête, la ricerca. Il Graal era il nome del suo genoma: l’identità del padre.
«La cotoletta di pollo era buona», lo aveva invogliato suo zio. Un brav’uomo, come del resto la moglie, che aveva accolto in casa Eddy e Myriam dopo la morte di Betta. Una fine ignominiosa: per Aids. Eddy aveva potuto sopportare quest’onta solo trasfigurandola. A lungo aveva considerato sua madre non deceduta, bensì «andata». Partita per l’isola leggendaria di Thule. L’isola boreale, di terra e fuoco, dove il sole non tramonta mai.
«Lo sai, zio: non la mangio la carne».
Non si sarebbe mai nutrito di carogne, Eddy. Né avrebbe toccato alcol, né fumato o assunto droga, la sua bestia nera. «Mai impuro», era il blasone del suo scudo immaginario. Teneva dei manubri, in cameretta. Temprarsi, sfinirsi con quelli irrobustendo il corpo giorno dopo giorno. Il suo motto: troverò mio padre. Il compito nella vita di ogni maschio è ricongiungersi alla figura del padre e prendere congedo, irrevocabilmente, dalla madre.
Betta, sua madre. Gli zigomi rialzati e le labbra rimpolpate, già a vent’anni. I seni a cui aveva fatto iniettare chissà quanto silicone. Per sfuggire alla pedagogia del padre, odiato, Betta si era sottomessa allo stereotipo dell’attrice porno che aveva voluto diventare, a ogni costo. Dunque si era asservita ad una sequela di agenti che l’avevano lasciata profanare, a mani basse, in decine di set. Macellerie dove il rischio d’infettarsi era remoto, ma non escluso. Il suo Grande Disordine.
«Quando parti, Eddy?».
Sua zia, sparecchiando, con una nota ansiosa e rassegnata (com’era lei) nella voce. «Domani».
Un volo low-cost, diretto a Napoli. Chissà per quale impulso lucido o delirante, poco prima di andare per sempre, Betta si era presa l’arbitrio di quella confidenza dal letto ospedaliero. Brusca, come quando si è in estremo ritardo.
«Io ti ho concepito mentre lavoravo».
Gli occhi di Betta: enormi, senza fondo, impietosi com’era stata lei nella vita (e come era stata la vita con lei).
«Sei grande, Eddy. Certe cose le devi sapere».
La verità sul mestiere di sua madre Eddy l’aveva appresa — e subita come una mutazione — a nemmeno quindici anni. Grazie ad alcune sequenze, estrapolate da un film di Betta, che lo promozionavano su certi canali in Rete. Eddy si era ritrovato a contemplare, sullo schermo del notebook, il doppio onirico di sua madre. Quella sosia avvinghiata a degli sconosciuti, ai loro fasci di muscoli, ai loro sessi marmorizzati.
«È stato durante la lavorazione», il respiro irregolare di sua madre, «Ho fatto e rifatto i conti cento volte, Eddy».
La pelle traslucida di Betta, gli ultimi tempi del ricovero, lo stregava. Così come i suoi denti, delle zanne sporgenti e giallastre. «È successo allora». Durante quel film dove lei, come strombazzava la produzione, si accoppiava con trenta maschi diversi. Una girandola di possibili padri, analizzati da Eddy fotogramma per fotogramma. Nessuno di quei volti tirati — e inespressivi — gli aveva mai trasmesso una risonanza.
«Girammo in due mezze giornate. In una villa sotto sequestro, vicino Napoli».
Questa villa: una specie di manufatto alieno, a picco sull’agglomerato di case abusive caotico come vegetazione spontanea. Queste dodici stanze spoglie, ora inondate dal sole che incendia le pareti di un bianco polare. Come a Thule, isola del sempiterno giorno. L’uomo che instrada Eddy era stato e continua ad essere l’amministratore giudiziario del bene sotto sequestro. Diciotto anni prima gli ambienti che Eddy va scoprendo, via via, avevano rappresentato il set di quella produzione. Emanano un biancore funerario. Anche la fotografia del film faceva irradiare, a Betta, un pallore disturbante in ogni inquadratura. I suoi occhi, durante la simulazione degli orgasmi, erano rovesciati e fissi come quelli di un’assiderata.
«Faceva freddo, qua dentro. Girarono a gennaio. Senza riscaldamento». L’Amministratore sembra una brava persona. Non ha fatto difficoltà ad accontentare il capriccio del ragazzo, presentatosi come il figlio di Betta. Eddy si morde un labbro.
«Mi dispiace. Le ho fatto perdere la mattinata».
L’Amministratore ha una spessa ruga al centro della fronte: «Tua mamma era una persona come si deve. Ne parlavano bene tutti. Solo che non ha avuto fortuna». L’Amministratore osserva fuori, dalla grande parete vetrata. Fuori: la sottostante favela di palazzine condonate; il loro degrado fuori tempo, pasoliniano. Questo salone, invece, è di una bianchezza che abbacina. Luce senza attenuazioni, colpe senza attenuanti.
Come in una moviola ripassa, sotto le palpebre abbassate di Eddy, la fila di quei trenta manzi, coi pettorali da gladiatori, che dovevano mostrarsi ansiosi di possedere Betta. Uno di loro vive ignaro di come si sia evoluto il proprio seme.
«Tutto a posto? Ti senti bene?». La voce impensierita dell’Amministratore ricorda a Eddy quella di sua zia. Sua zia che, la sera prima, ha voluto prenderlo da parte. Per parlargli come se lui fosse un uomo.
«Betta era tutta diversa da come sembrava».
Sua zia aveva le mani ruvide e arrossate.
«In pratica nessuno l’ha capita, tua mamma. Nemmeno io. I tuoi nonni meno che mai».
Le parole di sua zia risuonano nella mente di Eddy, nel silenzio ermetico di questa villa.
«Tua madre passava per una mangia-uomini. Invece era la persona più fragile che ho conosciuto. E sai perché?».
L’Amministratore sblocca e fa scorrere sul binario la porta-finestra. Una boccata di ossigeno. Nella testa dell’uomo i rumori d’ambiente di quelle due mezze giornate. Piedi strascicati, fruscio di cavi che si srotolavano. Schiocchi, gemiti che sembravano miagolii, tosse nervosa.
«Sai perché? Perché tua madre era affamata di tenerezza».
Ora Eddy osserva cosa accade di là dal vetro. L’Amministratore, accosciato, sta accarezzando un micio. Il gatto protende la gola, strizza gli occhi. Ha tuffato il muso nel palmo dell’Amministratore. Affamato. Affamato di tenerezza.