Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Che cosa ci insegna la crisi del sarrismo

- Di Antonio Polito

Seguo con divertito interesse le cronache degli insuccessi di Maurizio Sarri a Londra. Non perché ce l’abbia con lui. Né perché si sia reso colpevole di un commento omofobico nei confronti di Mancini. E neanche perché usava spiegare le sue sconfitte con il fatturato degli avversari, e ora che ha un fatturato di tutto rispetto non può più farlo. No, la ragione è un’altra. E sta nel fatto che non mi piaceva il fideistico abbandono di una parte cospicua della tifoseria napoletana nelle sue braccia, quel gridare al «miracolo» che così spesso questa città riserva all’azione di un «eroe» di cui si innamora, quasi come se la storia fosse fatta dalle individual­ità, e dunque un individuo eccezional­e potesse da solo riscattare un’intera comunità. Chiameremo, per brevità, questo atteggiame­nto mentale «maradonism­o». Intendiamo­ci. Maurizio Sarri ha fatto molto bene a Napoli.

Ha fatto brillare una squadra in cui i campioniss­imi non abbondavan­o e i fuoriclass­e non c’erano. L’ha fatto con il gioco, la programmaz­ione, l’esercizio, la tattica. Tutte doti importanti perché esaltano il collettivo. Ma che, proprio per questo, non possono essere intestate a un individuo. Solo Maradona nella storia della nostra città può vantare di aver vinto da solo.

Ma era un altro calcio, e oggi nemmeno un talento così puro ed eccezional­e può garantire il successo (come dimostra l’Argentina di Messi). In nessun campo dell’agire umano le grandi individual­ità bastano per vincere. Meno che mai basta Sarri, il quale da noi ha finora vinto solo una Coppa Italia di Serie D col Sansovino, e non ha ancora vinto niente neanche a Londra (e speriamo che quello che potrebbe vincere non lo vinca, perché lo devono vincere gli azzurri).

Ma se Sarri non trionfa alla corte di Abramovic, stavolta con tutto il fatturato che vuole, significa che è diventato un brocco? Ovviamente no. Vuol solo dire che non era Gesù e non camminava sulle acque. E che, forse, se a Napoli ha avuto più successo, vuol dire che la società e l’ambiente in cui lavorava da noi erano di qualità migliore di ciò che ha trovato al Chelsea.

Ma ragionamen­ti così non se ne sentono nelle nostra città. Anzi. Il mancato successo dell’allenatore in Inghilterr­a viene spiegato con la evidente arretratez­za calcistica dei londinesi. È la solita tesi sciovinist­ica che a Napoli adottiamo in molti campi della vita pubblica. Se ne faceva portavoce ancora l’altro giorno Marilicia Salvia sul Mattino, rimprovera­ndo i tifosi del Chelsea di essere troppo snob per capire la bellezza del calcio sarriano, perché concentrat­i solo sulla ricerca della vittoria, al punto da contestare e spingere sull’orlo dell’esonero un genio che non si meritano.

Ora, a parte il fatto che gli snob magari sono quelli che privilegia­no lo stile sul risultato pratico, de te fabula narratur, temo che questo sia l’ennesimo tributo a un complesso di superiorit­à che è all’origine di molti dei problemi della nostra città. In troppi campi ci consoliamo delle nostre fatiche e delle nostre miserie appellando­ci alla bellezza: è un antico discorso «quietista», nato nella cultura delle classi dominanti che volevano tener buone quelle subalterne, basta che ci sta il sole, basta che ci sta il mare, per cui languire con il Golfo davanti sarebbe meglio che prosperare nella nebbia. «Da una parte la bellezza - scrive Marilicia Salvia, riferendos­i al non vincente Sarri - dall’altra un Allegri qualunque, un qualunque Ronaldo, comprato a furor di popolo, e tutta una vita ad accontenta­rsi dell’uno a zero, a vincere sì ma lasciandos­i dietro un noiosissim­o vuoto».

Ora, alzi la mano il napoletano che non vorrebbe uno scudetto vinto con una sfilza di uno a zero, «lasciandos­i dietro un noiosissim­o vuoto». Alzi la mano chi non vorrebbe un «Ronaldo qualunque». È una pessima pedagogia, che da sempre vuol convincere i napoletani che una bella sconfitta è meglio di una brutta vittoria, forse per farli rassegnare a non vincere mai. Solo chi non conosce la competizio­ne può affermare che vincere è noioso, o facile. È sempre difficile, anche se hai Ronaldo, anche se hai un grande fatturato. Per quanto mi riguarda, scambierei il pedigree di Allegri con quello di Sarri tutta la vita. E lo stesso vale per Ancelotti: è uno dei grandi perché è stato capace di vincere, e se la società lo aiuta sono sicuro che prima o poi a Napoli un trofeo lo porta. Basta col passato dunque. Vediamo di occuparci del futuro, una volta tanto.

Ps: a proposito di futuro. Con il raddoppio delle pagine dedicate alla Puglia e l’apertura di un’edizione speciale quoti-

diana per Matera capitale della cultura europea, il Corriere del

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