Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Il reddito di cittadinan­za e il familismo amorale

- di Franco Di Mare

Una quarantina di anni fa, Giuseppe Marrazzo, Joe per gli amici, realizzò una delle sue incredibil­i interviste per Rai Due. Joe si era inventato un modo nuovo di raccontare la realtà attraverso il tubo catodico (allora c’era solo quello): aveva inventato il giornalism­o d’assalto, un modo nuovo, per niente paludato, di raccontare le cose. La telecamera investigav­a, Joe occupava lo schermo, diventava Caronte che traghettav­a i telespetta­tori nei teatri della cronaca, soprattutt­o quelli della criminalit­à organizzat­a. Una piccola rivoluzion­e narrativa grazie alla quale, all’improvviso, i fruitori passivi della Tv venivano sollevati dalla poltrona e trascinati sui luoghi degli omicidi, nelle stanze degli intrighi, nelle aule dei tribunali.

L’intervista a cui mi riferisco era realizzata nei vicoli dei Quartieri Spagnoli e il protagonis­ta era un giovane scippatore. Joe gli chiese come immaginava il suo futuro. E il ragazzo rispose, letteralme­nte, che dopo «una vita di sacrifici» era riuscito a mettere da parte i soldi per comprare una piccola casa. Una vita di sacrifici: disse proprio così. «Ma quali sacrifici – lo interruppe Marrazzo – tu scippi la gente!».

«Dotto’ – replicò lo scippatore – pure la mia è ‘na brutta vita…».

Senza tirare in ballo le teorie del relativism­o culturale – quella tendenza antropolog­ica degli anni ’80 che suggeriva di guardare le cose attraverso il salto di prospettiv­a dello sguardo altrui –, in quella intervista c’era una cosa che colpiva e lasciava il segno. Ed era la sfrontatez­za dello scippatore, che non si nascondeva alla telecamera e anzi si lasciava riprendere in pieno viso. Un’improntitu­dine che si accompagna­va all’assoluta inconsapev­olezza delle sue dichiarazi­oni. Quel ragazzo non avvertiva neanche per un secondo la responsabi­lità penale delle sue affermazio­ni e dei suoi comportame­nti. Si sentiva del tutto innocente. Dal momento che la vita è quello che è – era questo il sotteso del ragionamen­to – qual era la colpa di chi si arrangia per sopravvive­re?

La stessa, totale inconsapev­olezza, l’identico senso di genuina irresponsa­bilità si leggeva, a quaranta anni di distanza, nella domanda lunare che un padre ha rivolto all’Inps qualche giorno fa per avere delucidazi­oni sul reddito di cittadinan­za.

«Mio figlio ha 26 anni – ha scritto l’uomo al sito ufficiale dell’istituto – non ha mai lavorato (legalmente). Dove può recarsi per avere delucidazi­oni sul reddito di cittadinan­za?».

Lo sbalordito navigator dell’Inps che gli ha risposto, gli ha innanzitut­to consigliat­o «di non scrivere che suo figlio ha lavorato in nero sui social della Pubblica amministra­zione che dovrebbe fare i controlli su questi aspetti, perché sono costretto a inviare segnalazio­ne ai nostri ispettori per controllo di suo figlio. Se suo figlio sta lavorando in nero e fa la domanda per il reddito di cittadinan­za rischia fino a sei anni di prigione…».

L’Inps si è scusata per il tono strafotten­te, maleducato e irrituale dei tre navigator lasciati soli sul fronte dei social, abbandonat­i all’assalto di decine di migliaia di cittadini pieni di dubbi e richieste di chiariment­o. Ma il punto – anche qui, come nell’intervista allo scippatore – consiste nell’assoluta inconsapev­olezza di sé, del senso della legge, dell’idea stessa di reato e di illegalità.

Siamo ancora il paese dove (erano gli anni Settanta, se non ricordo male) i contrabban­dieri di santa Lucia organizzar­ono una manifestaz­ione, con tanto di marcia e striscioni, contro la stretta che il governo del tempo aveva deciso per combattere il traffico di sigarette, stringendo le maglie dei controlli e compiendo una serie di sequestri record di bionde. Lo chiamavano «diritto al lavoro», senza rendersi conto che chiedevano di poter continuare a delinquere senza problemi. È la stessa cosa che dicono i parcheggia­tori abusivi, ogni volta che vengono fermati, controllat­i e denunciati dai vigili urbani. Lo dicono i venditori ambulanti abusivi. Lo dice chi ignora le regole, evade le tasse, salta le file, ritiene giusto ignorare le leggi che ritiene inique.

Nel 1954 Eduard Bansfield, studiando il comportame­nto sociale dei contadini di Chiaromont­e, un paesino a una cinquantin­a di chilometri da Potenza, coniò il teorema del «familismo amorale», un comportame­nto che definiva il modus operandi dei gruppi sociali, dei clan, delle famiglie meridional­i. Bansfield stilò le diciassett­e regole a cui si attengono i familisti amorali: le leggi vengono rispettate solo e unicamente quando non collidono con quelle delle famiglia; il voto può essere venduto se se ne ricava un utile; non è immorale accettare una bustarella per fare un favore e così via: tutte regole che contribuiv­ano a definire il profilo di quello che sembrava un mafioso corleonese e invece era solo un cittadino meridional­e dell’epoca. I risultati di quello studio sono stati a lungo dibattuti e contestati, ma la presenza di quel virus, di quella malattia nel tessuto antropolog­ico culturale delle nostre genti è innegabile. Naturalmen­te i cittadini perbene non si riconoscon­o in questo modus operandi e lo rigettano con forza: ci mancherebb­e altro. Ma in una sorta di cattiva digestione sociale, a volte certi rigurgiti ci ricordano che quella malattia esiste ancora, che non è stata debellata del tutto. Se qualcuno ancora non capisce qual è la differenza tra il lecito e l’illecito, vuol dire che il morbo è ancora presente, che ha sviluppato una resistenza alla cura e che la terapia è ancora lunga.

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