Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Il reddito di cittadinanza e il familismo amorale
Una quarantina di anni fa, Giuseppe Marrazzo, Joe per gli amici, realizzò una delle sue incredibili interviste per Rai Due. Joe si era inventato un modo nuovo di raccontare la realtà attraverso il tubo catodico (allora c’era solo quello): aveva inventato il giornalismo d’assalto, un modo nuovo, per niente paludato, di raccontare le cose. La telecamera investigava, Joe occupava lo schermo, diventava Caronte che traghettava i telespettatori nei teatri della cronaca, soprattutto quelli della criminalità organizzata. Una piccola rivoluzione narrativa grazie alla quale, all’improvviso, i fruitori passivi della Tv venivano sollevati dalla poltrona e trascinati sui luoghi degli omicidi, nelle stanze degli intrighi, nelle aule dei tribunali.
L’intervista a cui mi riferisco era realizzata nei vicoli dei Quartieri Spagnoli e il protagonista era un giovane scippatore. Joe gli chiese come immaginava il suo futuro. E il ragazzo rispose, letteralmente, che dopo «una vita di sacrifici» era riuscito a mettere da parte i soldi per comprare una piccola casa. Una vita di sacrifici: disse proprio così. «Ma quali sacrifici – lo interruppe Marrazzo – tu scippi la gente!».
«Dotto’ – replicò lo scippatore – pure la mia è ‘na brutta vita…».
Senza tirare in ballo le teorie del relativismo culturale – quella tendenza antropologica degli anni ’80 che suggeriva di guardare le cose attraverso il salto di prospettiva dello sguardo altrui –, in quella intervista c’era una cosa che colpiva e lasciava il segno. Ed era la sfrontatezza dello scippatore, che non si nascondeva alla telecamera e anzi si lasciava riprendere in pieno viso. Un’improntitudine che si accompagnava all’assoluta inconsapevolezza delle sue dichiarazioni. Quel ragazzo non avvertiva neanche per un secondo la responsabilità penale delle sue affermazioni e dei suoi comportamenti. Si sentiva del tutto innocente. Dal momento che la vita è quello che è – era questo il sotteso del ragionamento – qual era la colpa di chi si arrangia per sopravvivere?
La stessa, totale inconsapevolezza, l’identico senso di genuina irresponsabilità si leggeva, a quaranta anni di distanza, nella domanda lunare che un padre ha rivolto all’Inps qualche giorno fa per avere delucidazioni sul reddito di cittadinanza.
«Mio figlio ha 26 anni – ha scritto l’uomo al sito ufficiale dell’istituto – non ha mai lavorato (legalmente). Dove può recarsi per avere delucidazioni sul reddito di cittadinanza?».
Lo sbalordito navigator dell’Inps che gli ha risposto, gli ha innanzitutto consigliato «di non scrivere che suo figlio ha lavorato in nero sui social della Pubblica amministrazione che dovrebbe fare i controlli su questi aspetti, perché sono costretto a inviare segnalazione ai nostri ispettori per controllo di suo figlio. Se suo figlio sta lavorando in nero e fa la domanda per il reddito di cittadinanza rischia fino a sei anni di prigione…».
L’Inps si è scusata per il tono strafottente, maleducato e irrituale dei tre navigator lasciati soli sul fronte dei social, abbandonati all’assalto di decine di migliaia di cittadini pieni di dubbi e richieste di chiarimento. Ma il punto – anche qui, come nell’intervista allo scippatore – consiste nell’assoluta inconsapevolezza di sé, del senso della legge, dell’idea stessa di reato e di illegalità.
Siamo ancora il paese dove (erano gli anni Settanta, se non ricordo male) i contrabbandieri di santa Lucia organizzarono una manifestazione, con tanto di marcia e striscioni, contro la stretta che il governo del tempo aveva deciso per combattere il traffico di sigarette, stringendo le maglie dei controlli e compiendo una serie di sequestri record di bionde. Lo chiamavano «diritto al lavoro», senza rendersi conto che chiedevano di poter continuare a delinquere senza problemi. È la stessa cosa che dicono i parcheggiatori abusivi, ogni volta che vengono fermati, controllati e denunciati dai vigili urbani. Lo dicono i venditori ambulanti abusivi. Lo dice chi ignora le regole, evade le tasse, salta le file, ritiene giusto ignorare le leggi che ritiene inique.
Nel 1954 Eduard Bansfield, studiando il comportamento sociale dei contadini di Chiaromonte, un paesino a una cinquantina di chilometri da Potenza, coniò il teorema del «familismo amorale», un comportamento che definiva il modus operandi dei gruppi sociali, dei clan, delle famiglie meridionali. Bansfield stilò le diciassette regole a cui si attengono i familisti amorali: le leggi vengono rispettate solo e unicamente quando non collidono con quelle delle famiglia; il voto può essere venduto se se ne ricava un utile; non è immorale accettare una bustarella per fare un favore e così via: tutte regole che contribuivano a definire il profilo di quello che sembrava un mafioso corleonese e invece era solo un cittadino meridionale dell’epoca. I risultati di quello studio sono stati a lungo dibattuti e contestati, ma la presenza di quel virus, di quella malattia nel tessuto antropologico culturale delle nostre genti è innegabile. Naturalmente i cittadini perbene non si riconoscono in questo modus operandi e lo rigettano con forza: ci mancherebbe altro. Ma in una sorta di cattiva digestione sociale, a volte certi rigurgiti ci ricordano che quella malattia esiste ancora, che non è stata debellata del tutto. Se qualcuno ancora non capisce qual è la differenza tra il lecito e l’illecito, vuol dire che il morbo è ancora presente, che ha sviluppato una resistenza alla cura e che la terapia è ancora lunga.