Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Quelle partite con la maglietta del Brasile
Le vacanze cominciavano a maggio, ero bambino quando l’Italia vinse i Mondiali
La memoria è un bizzarro e misterioso dispositivo. Come ha scritto Milan Kundera in un romanzo che amo molto (L’ignoranza), è uno spazio dilatato in cui si raccolgono eventi eterogenei, senza ordine. In questo spazio, è possibile conservare appena «un milionesimo, un miliardesimo, insomma una infinitesima particella della vita vissuta». Ma non sapremo mai perché tratteniamo quel tassello e non un altro: in ciascuno di noi, queste scelte si compiono in maniera oscura, al di là della nostra volontà. Si tratta di una scelta segnata da cancellature, da omissioni, da trasfigurazioni. Si tratta di una scelta segnata da cancellature, da omissioni, da trasfigurazioni.
La memoria è un bizzarro e misterioso dispositivo. Come ha scritto Milan Kundera in un romanzo che amo molto
(L’ignoranza), è uno spazio dilatato in cui si raccolgono eventi eterogenei, senza ordine. In questo spazio, è possibile conservare appena «un milionesimo, un miliardesimo, insomma una infinitesima particella della vita vissuta». Ma non sapremo mai perché tratteniamo quel tassello e non un altro: in ciascuno di noi, queste scelte si compiono in maniera oscura, al di là della nostra volontà. Si tratta di una scelta segnata da cancellature, da omissioni, da trasfigurazioni. . Si tratta di una scelta segnata da cancellature, da omissioni, da trasfigurazioni. «Una realtà così com’era quando era non esiste più; restituirla è impossibile», ha osservato Kundera.
Quanti riti di passaggio, in quella che proprio Kundera ha definito “l’età lirica”. Dunque, avrei potuto raccontare delle mie vacanze ad Amalfi: la mia scoperta del mondo. O di quelle a Ischia: teatro del transito dall’infanzia, all’adolescenza, alla maturità, tra leggerezze, inquietudini, intere giornate a mare e partite di calcio. Oppure, avrei potuto ripercorrere la mia “mitica” vacanza a Oxford nel 1988: quando ti illudi di essere diventato grande; scopri i primi amori; senti i primi sapori; ti fai sedurre dal rock sentito in discoteche calde; vorresti che la tua vita fosse come quella pausa meravigliosa, allegra, spensierata.
Invece, voglio parlarvi di un’immagine che mi accompagna da tanti anni. Risale a quella stagione bellissima, quando si è felici senza esserne consapevoli. Allora l’estate iniziava a maggio; e si consegnava in un’attesa dilatata. Provo a descrivere quell’immagine. Metà anni ‘70.
Via Marechiaro. Scuola elementare “Virgilio Marone”.
Ero un po’ uno straniero: abitavo al Vomero, mentre i miei compagni di classe vivevano in quella zona. Sembrava un’altra Napoli. Sono maledettamente vive le sensazioni di quel periodo. Pochi bambini borghesi, tanti di estrazione popolare. Certe facce. Certe
mani segnate dalla fatica. Certi odori: talvolta, morbidi e piacevoli; altre volte, acri, quasi respingenti. Le giornate passavano lente, scandite dalle stesse liturgie. Compiti, interrogazioni, le prime ansie. Fino a quando non arrivava maggio. Che luce: una luce fortissima, mediterranea, zenitale, priva di imperfezioni. È la luce più forte che abbia mai visto. E, poi, l’aria. Era come se, d’incanto, le cupezze e le paure sparissero, lasciando trionfare un’aria tersa e pulita. E che magica armonia. Ricordo una strana emozione: le varie presenze erano momenti necessari di un’infanzia. Le ingenuità. I sorrisi. I rossori. Gli imbarazzi. I primi dialoghi con le “donne”, segnati da poche parole. In particolare, ricordo la maestra severissima, che ci faceva imparare a memoria i versi di D’Annunzio e di Pascoli. Ricordo, poi, Giorgio, che sembrava uscito da un romanzo di Verga. Ricordo Luca, intelligente, brillante, il più internazionale tra di noi, con la madre olandese e il padre scenografo alla Rai: somigliava a certi personaggi di Maupassant. Ricordo Massimo, già equilibrato e maturo. Ma ricordo anche Valentina, lentigginosa. Federica, ricca e snob. E pochi altri. Ricordo, poi, alcune situazioni di quei giorni in cui la scuola rallentava i suoi ritmi. Una partita di pallone su un campetto di terra, al di sotto del ristorante La Fazenda: indossavo un’improbabile maglietta giallo-Brasile con un ancor più improbabile numero 9.
E una festa di fine anno, in una villa in zona, dove la madre di una nostra amichetta faceva la domestica. Giugno 1982: l’Italia si apprestava a vincere i Mondiali. Dopo qualche giorno sarei partito per Ischia. In quella festa, mi sentivo contento, ma sempre un po’ fuori luogo: fuori gruppo. Ero ancora un bambino, mentre qualche mio compagno già si dedicava a disinvolti corteggiamenti.
Quando ripenso a quel periodo, mi torna in mente soprattutto l’edificio della scuola. Una struttura piuttosto monumentale, color mattone. Pochi scalini. Un piccolo cortile. Salivi. A destra, la sala dei docenti. A sinistra, un lungo corridoio con le aule. Al piano di sopra, altre aule. A maggio, i corridoi venivano invasi da fasci luminosi.
In un romanzo, mi è capitato di rivivere quelle atmosfere. Si tratta di un libro di Domenico Rea uscito nel 1953. Ritratto di maggio, il titolo. Una sorta di piccola recherche, nella quale letteratura e testimonianza si fondono. La narrazione di un microcosmo: una cittadina del Sud intorno agli anni ‘40. Un reportage sulla prima elementare frequentata da bambini che “odorano” ancora di istinto, portati a incontrarsi e a scontrarsi, per la prima volta da soli, nell’aula scolastica. L’epilogo. «La chiusura delle scuole era prossima e la primavera si andava corrompendo ai primi colori estivi che, a mezzogiorno, già serpeggiavano come vampe nell’aria. L’intero edificio si era trasformato in un arioso stabilimento di voci infantili. Le ore avanzavano e si ritiravano lentamente con l’ombra rettilinea che il sole tracciava nel cortile. Tutte le aule erano aperte e si vedevano i maestri in cattedra e gli alunni dei primi banchi. Sia nei ragazzi che nei maestri era entrato il piacere di vivere all’aria aperta, invogliati dalla freschezza del mattino. Dopo la ricreazione invece l’aria si appesantiva e le ore si allungavano enormemente». Difficile esprimere meglio quelle scene di fine maggio-inizio giugno. Quando, dopo la scuola si tornava a casa. E non si era mai stanchi di giocare.
Quanta nostalgia se mi volto verso quel tempo nel quale, come cantava Francesco Guccini in Eskimo, si aveva ancora tutto per possibilità. «Mamma, vienimi a prendere. Le merendine di quand’ero bambino non torneranno più! I pomeriggi di maggio non torneranno più!», gridava Nanni Moretti in Palombella rossa.
Sono trascorsi davvero tanti anni: non sai mai se il tempo – nostro coinquilino esistenziale – ti attraversa o ne sei attraversato. Ora vivo in un’altra città. Ma, ogni volta che torno a Napoli, mi piace ripetere lo stesso rito (mia moglie Paola ironizza sempre su queste mie consuetudini). Prendo la vecchia Vespa bianca, e vado a Marechiaro, verso la “mia” scuola (ora si chiama Cimarosa). Ho avuto mille volte la tentazione di entrarvi, per vedere che cosa è cambiato. Non l’ho mai fatto: per paura di restare deluso. Altre mille volte mi sono chiesto che cosa facciano adesso quei ragazzini seduti ai banchi in una classe della metà degli anni Settanta. Ho evitato di fare anche questo. L’effettoCompagni di scuola mi terrorizza.
Preferisco ancora immaginare che lì dentro il tempo non sia passato. Che tutto sia rimasto com’era: le aule, la maestra burbera, i compagni di classe, le voci, le lavagne. Fuori, il mondo dei grandi. E il profumo dell’estate imminente. E soprattutto quella luce abbacinante.
” Abitavo al Vomero e andavo in una scuola a Marechiaro, mi sentivo straniero
Ricordo i compagni: Giorgio, Luca, Massimo, Valentina e Federica