Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Cesare de Seta (ri)narra arte e architettura tra le due guerre
Quando ci si occupa di testi cardine più volte riscritti, ripensati e riconsiderati non si può non andare con la mente a Fratelli d’Italia di Alberto Arbasino: trent’anni tra la prima edizione del 1963 e l’ultima, definitiva, del 1993 con esattamente al centro, nel 1976, una seconda versione. Reinventato completamente, arrivando a raggiungere le oltre mille pagine a fronte della metà di quelle iniziale, l’enciclopedico viaggio on the road del rizomatico scrittore di Voghera rappresenta l’epitome di una ricerca e reinvenzione linguistica paragonabile, per originalità, solo ai lavori di Gadda e di D’Arrigo. A quel libro
monstre si ripensa quando si ha di fronte la terza edizione di La civiltà architettonica in Italia 1900-1944 (Clean, 2019) di Cesare de Seta, una storia della cultura artistica e architettonica nazionale tra le due guerre: altrettanto centrale nella produzione non solo dello storico napoletano ma anche nell’intera analisi critica su quel periodo è stata, nell’arco di mezzo secolo, più volte rivista. La versione attuale non si limita infatti a correggere, emendare, spostare parti all’interno del testo ma accorda e assesta pesi su protagonisti e vicende di un periodo da nessuno mai analizzato così a fondo. Il volume, dopo la sua prima uscita nel 1971, si inserì autorevolmente nel corso del decennio all’interno del dibattito sull’esistenza e definizione stessa di una cultura fascista che vide di fronte Nicola Tranfaglia e Norberto Bobbio e sebbene quella temperie appare, purtroppo, molto lontana dalla qualità e dalla tessitura del dibattito culturale attuale, il libro di de Seta è ancor oggi uno strumento lucido e appassionato sul periodo non solo per le vicende architettoniche ma anche su quelle delle arti figurative.
La prima metà del Novecento fu infatti, non solo in Italia, il ciclo in cui pittura, fotografia e scultura furono inscindibili dalle sorti stesse dell’architettura.
Restano immutati, invece, i furori e le passioni di uno storico sanguigno che non risparmia sintonie e avversioni, a volte feroci, verso alcuni protagonisti di quegli anni: icastico in tal senso «le sgangherate matite di Piacentini» rivolto a uno dei protagonisti del monumentalismo fascista. Molto più dense appaiono inoltre le pagine dedicate al liberty da nord a sud e singolare qualche ripensamento su alcuni personaggi il cui ruolo de Seta fu tra i primi a scavare: si pensa a Raffaello Giolli cui proprio l’autore dedicherà, negli anni ‘80, un volume in cui lo accostava a due giganti del dibattito architettonico come Giuseppe Pagano ed Eduardo Persico e che in questo volume esce, almeno ponderalmente, ridimensionato rispetto alle redazioni precedenti, mentre lo svizzero-italiano Mario Chiattone, ingiustamente trascurato in passato, vede finalmente affermato il ruolo che gli spetta.
Il volume, inoltre, appare viepiù prezioso anche per gli apparati iconografici, bibliografici e di note ampiamente arricchiti e aggiornati. L’analisi critica appare ancora coraggiosamente spostata più su Gramsci che su Croce con un po’ di Barthes in più e con un po’ di Argan in meno e al contempo fa piacevolmente sorridere la scoperta di alcuni personaggi negletti fino a qualche tempo fa. Come il rilievo dato allo scultore e disegnatore Adolfo Wildt, ignorato nelle versioni precedenti e cui riconosce finalmente una cifra stilistica d’impronta mitteleuropea, o l’inserimento nella redazione attuale di un pittore come Cagnaccio di San Pietro, di quel isolato ribelle lontano da ogni avanguardia, movimento e corrente in cui de Seta riconosce rimandi alla Tradizione, con la maiuscola, tra Piero della Francesca e Mantegna: troppo per essere apprezzato in epoche di furori ideologici e di manifesti arroventati.