Corriere del Mezzogiorno (Campania)
La «questione» universitaria non è (soltanto) il turn over
Ieri il Corriere del Mezzogiorno ha riportato i contenuti di un dossier della Svimez, secondo il quale gli Atenei meridionali hanno perduto 120 puntiorganico a favore di quelli del Centronord con una evidente ulteriore penalizzazione in termini assunzionali e relativo impatto negativo sulla capacità formativa. In effetti dal punto di vista puramente numerico il dato è certamente corretto, ma non è assolutamente vero che questo debba impattare sulla capacità formativa. Innanzitutto ci sono delle regole ben precise che coinvolgono la sostenibilità della capacità formativa di ciascun Ateneo.
Regole che sono legate al numero totale di docenti e ricercatori e al rapporto tra tale numero e numero di corsi di laurea che possono essere erogati.
Sarebbe buona norma che ogni Ateneo facesse annualmente una valutazione di quali corsi di laurea sono produttivi in termini di frequenza e quali meno, optando per scelte che siano congruenti non solo con quelli che possono essere gli obiettivi culturali dell’Ateneo, ma con quelli che possono essere gli interessi del territorio in cui verte e insiste. Assumere docenti e ricercatori solo per aumentare il potenziale formativo non ha oggi grande senso e anzi non fa altro che aumentare la spesa. È vera l’affermazione che questa distribuzione di punti-organico, basata principalmente su fattori economici che riguardano la stabilità economica dei singoli Atenei, impatta sulle scelte strategiche assunzionali degli Atenei provocando ulteriore svantaggio di quelli del Sud verso quelli del Nord? Certamente una maggiore disponibilità di risorse facilita le scelte, ma come sono utilizzate?
La legge prevede che fino ad un massimo dell’80% di queste risorse le Università le possono dedicare alle progressioni interne (cioè da ricercatore ad associato e da associato ad ordinario con meccanismi concorsuali o selezioni interne di candidati particolarmente meritevoli) o per finanziare concorsi di ricercatori di tipo B (di solo in misura ridotta perché ormai negli ultimi anni il Miur in legge di stabilità assegna su proprio budget posti di ricercatori tipo B) mentre almeno il 20% delle risorse deve essere dedicato ai concorsi riservati a candidati esterni agli Atenei (color che non hanno avuto alcun rapporto contrattuale , didattico o di ricerca negli ultimi 3 anni con l’Università sede del bando concorsuale). Nella stragrande maggioranza degli Atenei, anche per la notevole pressione interna del personale docente e ricercatore, questo rapporto di 80% contro 20% viene rispettato o si è in presenza di piccole variazioni. Ne deriva che chi viene penalizzato da una ridotta disponibilità di punti organico non sono tanto i concorsi esterni (almeno per il 20% del totale) ma piuttosto i docenti interni che hanno più difficoltà nelle progressioni di carriera. Poiché il potenziale formativo degli Atenei è funzione del rapporto tra numero globale di docenti e ricercatori e corsi di laurea erogati, non essendoci differenza nel conteggio tra professori ordinari ed associati ma solo tra docenti e ricercatori, la riduzione del numero di punti-organico può solo avere un minimo impatto per quanto riguarda il passaggio di ricercatori al ruolo di docenti. Quindi la riduzione dei puntiorganico va ad incidere negativamente e prevalentemente sul passaggio di ruolo da ricercatore ad associato e da associato a ordinario e impatta poco sull’offerta formativa.
Prova di queste affermazioni è il continuo divenire dell’offerta formativa degli atenei campani che, indipendentemente dal numero di studenti ad essi iscritti, dalla loro capacità formative, dalla loro dislocazione territoriale, specificità culturali e status giuridico, ogni anno rinnovano ed arricchiscono la loro offerta formativa senza che via sia un significativo impatto delle variazioni nell’assegnazione annuale dei punti organico da parte del Miur. Si potrebbe argomentare che un maggior numero di punti organico potrebbe spingere gli Atenei ad aumentare la quota di concorsi esterni da bandire e quindi a passare con maggior facilità da un 20 ad un 30%, per esempio. ù
Questo è assolutamente corretto in via teorica un po’ meno in via pratica, essendo l’attuale sistema universitario arroccato essenzialmente su un sistema “protezionistico” dove si tende sempre a privilegiare, nella maggioranza dei casi, il personale che si ha la proprio interno piuttosto che quello esterno. Tale tipo di atteggiamento è prevalentemente favorito dall’attuale legislazione che prevede un costo fortemente ridotto dei passaggi di ruolo all’interno di ciascun di Ateneo nei confronti delle assunzioni dall’esterno.
Non è quindi la quantità dei corsi di laurea erogati che fa la differenza ma la qualità. Non è detto dunque che i professori esterni all’Ateneo siano la panacea del problema, mentre sicuramente lo sono le scelte strategiche culturali e di bilancio di ciascun Ateneo.