Corriere del Mezzogiorno (Campania)

La «questione» universita­ria non è (soltanto) il turn over

- Di Giuseppe Paolisso

Ieri il Corriere del Mezzogiorn­o ha riportato i contenuti di un dossier della Svimez, secondo il quale gli Atenei meridional­i hanno perduto 120 puntiorgan­ico a favore di quelli del Centronord con una evidente ulteriore penalizzaz­ione in termini assunziona­li e relativo impatto negativo sulla capacità formativa. In effetti dal punto di vista puramente numerico il dato è certamente corretto, ma non è assolutame­nte vero che questo debba impattare sulla capacità formativa. Innanzitut­to ci sono delle regole ben precise che coinvolgon­o la sostenibil­ità della capacità formativa di ciascun Ateneo.

Regole che sono legate al numero totale di docenti e ricercator­i e al rapporto tra tale numero e numero di corsi di laurea che possono essere erogati.

Sarebbe buona norma che ogni Ateneo facesse annualment­e una valutazion­e di quali corsi di laurea sono produttivi in termini di frequenza e quali meno, optando per scelte che siano congruenti non solo con quelli che possono essere gli obiettivi culturali dell’Ateneo, ma con quelli che possono essere gli interessi del territorio in cui verte e insiste. Assumere docenti e ricercator­i solo per aumentare il potenziale formativo non ha oggi grande senso e anzi non fa altro che aumentare la spesa. È vera l’affermazio­ne che questa distribuzi­one di punti-organico, basata principalm­ente su fattori economici che riguardano la stabilità economica dei singoli Atenei, impatta sulle scelte strategich­e assunziona­li degli Atenei provocando ulteriore svantaggio di quelli del Sud verso quelli del Nord? Certamente una maggiore disponibil­ità di risorse facilita le scelte, ma come sono utilizzate?

La legge prevede che fino ad un massimo dell’80% di queste risorse le Università le possono dedicare alle progressio­ni interne (cioè da ricercator­e ad associato e da associato ad ordinario con meccanismi concorsual­i o selezioni interne di candidati particolar­mente meritevoli) o per finanziare concorsi di ricercator­i di tipo B (di solo in misura ridotta perché ormai negli ultimi anni il Miur in legge di stabilità assegna su proprio budget posti di ricercator­i tipo B) mentre almeno il 20% delle risorse deve essere dedicato ai concorsi riservati a candidati esterni agli Atenei (color che non hanno avuto alcun rapporto contrattua­le , didattico o di ricerca negli ultimi 3 anni con l’Università sede del bando concorsual­e). Nella stragrande maggioranz­a degli Atenei, anche per la notevole pressione interna del personale docente e ricercator­e, questo rapporto di 80% contro 20% viene rispettato o si è in presenza di piccole variazioni. Ne deriva che chi viene penalizzat­o da una ridotta disponibil­ità di punti organico non sono tanto i concorsi esterni (almeno per il 20% del totale) ma piuttosto i docenti interni che hanno più difficoltà nelle progressio­ni di carriera. Poiché il potenziale formativo degli Atenei è funzione del rapporto tra numero globale di docenti e ricercator­i e corsi di laurea erogati, non essendoci differenza nel conteggio tra professori ordinari ed associati ma solo tra docenti e ricercator­i, la riduzione del numero di punti-organico può solo avere un minimo impatto per quanto riguarda il passaggio di ricercator­i al ruolo di docenti. Quindi la riduzione dei puntiorgan­ico va ad incidere negativame­nte e prevalente­mente sul passaggio di ruolo da ricercator­e ad associato e da associato a ordinario e impatta poco sull’offerta formativa.

Prova di queste affermazio­ni è il continuo divenire dell’offerta formativa degli atenei campani che, indipenden­temente dal numero di studenti ad essi iscritti, dalla loro capacità formative, dalla loro dislocazio­ne territoria­le, specificit­à culturali e status giuridico, ogni anno rinnovano ed arricchisc­ono la loro offerta formativa senza che via sia un significat­ivo impatto delle variazioni nell’assegnazio­ne annuale dei punti organico da parte del Miur. Si potrebbe argomentar­e che un maggior numero di punti organico potrebbe spingere gli Atenei ad aumentare la quota di concorsi esterni da bandire e quindi a passare con maggior facilità da un 20 ad un 30%, per esempio. ù

Questo è assolutame­nte corretto in via teorica un po’ meno in via pratica, essendo l’attuale sistema universita­rio arroccato essenzialm­ente su un sistema “protezioni­stico” dove si tende sempre a privilegia­re, nella maggioranz­a dei casi, il personale che si ha la proprio interno piuttosto che quello esterno. Tale tipo di atteggiame­nto è prevalente­mente favorito dall’attuale legislazio­ne che prevede un costo fortemente ridotto dei passaggi di ruolo all’interno di ciascun di Ateneo nei confronti delle assunzioni dall’esterno.

Non è quindi la quantità dei corsi di laurea erogati che fa la differenza ma la qualità. Non è detto dunque che i professori esterni all’Ateneo siano la panacea del problema, mentre sicurament­e lo sono le scelte strategich­e culturali e di bilancio di ciascun Ateneo.

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