Corriere del Mezzogiorno (Campania)
UNA VECCHIA IDEA DI CULTURA
Vorrei partire da un piccolo episodio personale. Una decina di giorni fa ho ricevuto la telefonata da una funzionaria della Regione, che mi ha invitato a intervenire agli Stati generali della cultura previsti per i prossimi 21 e 22 ottobre a Napoli, nella sede di Palazzo Reale. «Che bella iniziativa...», è stata la mia reazione immediata. «Ma come è possibile che, per definire il programma, siano arrivati a pochi giorni dall’evento? È accettabile questa disorganizzazione?», mi sono chiesto subito dopo. Prima di accettare l’invito, ho chiesto qualche informazione più dettagliata e precisa. In che modo si sarebbe svolto il summit? Chi vi avrebbe preso parte? Quali gli obiettivi? «In queste ore stiamo definendo tutto. Le manderemo in serata un documento con le notizie richieste», è stata la risposta. Trascorrono i giorni. Controllo la mail (e lo spam). Niente. Forse ci sarà stato qualche rinvio, mi dico. Invece, la scorsa settimana ricevo una mail con il «diario» dei lavori. A sorpresa, scopro di essere tra gli ospiti in un piuttosto generico tavolo su cultura, nuove tecnologie e comunicazione. Eppure, non avevo mai aderito ufficialmente all’iniziativa. Inoltre, devo confessare che da sempre nutro una istintiva diffidenza per assemblee e tavoli programmatici. Ogni volta risuona in me la celebre ed eversiva battuta di Nanni Moretti: «No, il dibattito no».
Poi, leggo con attenzione il palinsesto, che prevede, oltre agli interventi del presidente Vincenzo De Luca e del ministro per i Beni e le Attività Culturali Dario Franceschini, le relazioni introduttive di varie personalità (Domenico De Masi, Marco Salvatore, Mauro Calise, Carlo Borromeo e Patrizia Nardi) e una serie di tavoli tematici (coordinati dai rettori degli Atenei napoletani, Gaetano Manfredi, Lucio D’Alessandro ed Elda Morlicchio, da docenti universitari e da giornalisti). Dopo un’attenta valutazione, chiedo di tagliare il mio nome.
Vorrei provare a spiegare ora le ragioni del mio rifiuto in alcuni punti.
Il titolo dell’incontro è ambizioso. Rimanda a quello scelto dal «Sole 24 Ore» per importanti appuntamenti che, per diversi anni, si sono tenuti a Roma, coinvolgendo figure di rilievo del mondo della cultura e dell’imprenditoria. La versione napoletana di quel format appare quasi «strapaesana». Vi parteciperanno solo voci campane. Nessuna traccia delle best practies italiane ed europee. Non sono stati indicati modelli di riferimento, né comparazioni possibili.
Non sarebbe stato meglio portarsi al di là di un’ottica solo napoletana? Come si possono affrontare i problemi della cultura contemporanea in un’ottica tanto localistica? Una scelta piuttosto provinciale e anacronistica. Forse, il tentativo tardivo per porsi in sintonia con certe politiche rivolte a promuovere le autonomie regionali anche negli ambiti della cultura e del patrimonio storico-artistico?
Dal «cartellone» degli ospiti emerge un’immagine per larga parte ancora novecentesca, borghese e radical chic di Napoli. Si documentano esperienze legate soprattutto a contesti istituzionali (Università, musei, fondazioni, realtà para-politiche, società di produzione televisiva e cinematografica). Certo, in alcuni casi, si tratta di rilevanti eccellenze napoletane e regionali. Ma Napoli è solo questo?
No. Siamo convinti, invece, che la Napoli più vivace e interessante oggi sia non tanto quella «ufficiale», ma quella più nascosta e segreta delle iniziative dal basso, dello street style, dei movimenti clandestini. Avventure corsare che solo a Napoli riescono a convivere – non senza schizofrenie – con progetti impegnati nella più avanzata ricerca scientifica, informatica, tecnologica. Di questo straordinario e unico dialogo tra «alto» e «basso» agli Stati generali non si darà conto. E ancora: chi assisterà alla due giorni partenopea potrà ascoltare quasi esclusivamente i contributi di attori provenienti dal mondo accademico, da quello politico-amministrativo e da quello dei media locali.
Qui non è in discussione l’autorevolezza di alcune tra le figure invitate. Sono in discussione, invece, la disomogenea qualità dei partecipanti, la «monoliticità» e la prevedibilità delle varie presenze. Sarebbe stato più stimolante coinvolgere non i «soliti noti» scelti secondo le regole di un evidente manuale Cencelli, ma qualche voce inattesa, diversa, meno «inquadrata», fuori dal coro, non proveniente da salotti né da cenacoli, capace di mettere in discussione una sempre incombente retorica. Il rischio è alto: gli Stati generali rischiano di diventare il luogo dove si consumano gli stanchi riti di quella che, per dirla con il titolo di un libro di Bauman, potremmo definire una «retrotopia».
Vorrei concludere con qualche domanda. E con un’immagine.
Le domande. Era davvero necessaria una manifestazione simile, per chiamare a raccolta il mondo dell’intellighenzia napoletana di centro-sinistra, spesso ancorato a paradigmi e a riferimenti oramai superati? Che idea di cultura emergerà da questa kermesse involontariamente «sovranista»? E se fosse l’ennesima occasione persa della classe politica e intellettuale campana, che continua narcisisticamente a esibire se stessa, senza prendere atto di tanti errori e di tante miopie e, soprattutto, senza aprirsi al «nuovo che viene»? Che documenti condivisi verranno prodotti dai tavoli?
Infine, un’immagine. In una bella pagina di The Game di Alessandro Baricco (Einaudi), si parla di alcune istituzioni che sembrano segnare a gioco fermo: somigliano a quei calciatori che «esultano dopo aver fatto un goal che però era a gioco fermo». Ecco, la prossima kermesse napoletana a me ricorda proprio quelle situazioni nelle quali i giocatori segnano dopo il fischio dell’arbitro.