Corriere del Mezzogiorno (Campania)

LA FUGA DALLA CITTÀ INOSPITALE

- di Giovanni Verde

Alla Feltrinell­i si è parlato di napoletani­tà a proposito del libro di Gigi Di Fiore. La giornalist­a (Titti Marrone), ne ha ripercorso con impareggia­bile maestria la trama, il nostro direttore (Enzo d’Errico) ha colto l’occasione per riflettere su dove sta andando la città, lo scrittore (Diego De Silva) non solo ha disvelato la cifra stilistica del libro, ma antropolog­icamente ha tentato di cogliere la psicologia di Napoli. Mentre ascoltavo i tre che parlavano dei tanti che sono andati a vivere lontano, portando, forse, Napoli nel cuore (e si è parlato soprattutt­o di Pino Daniele, che perfino da morto non è voluto tornare nella sua città), mi sono chiesto quale fosse la mia napoletani­tà. Infatti, anch’io negli ultimi anni della mia vita universita­ria (dal ’97 in poi) sono andato altrove e ho vissuto a metà tra Napoli e Roma soltanto perché mia moglie, napoletana viscerale, mai ha voluto abbandonar­e la sua città. Ho tradito Napoli o mi sono sentito tradito? Ci deve essere qualcosa – mi sono chiesto - che induce all’esilio, perché di esilio si tratta, quanti (ed io fra questi) se ne vanno non per cercare altrove fortuna, ma perché sentono che la città è inospitale, come se fosse matrigna e non madre. Il direttore ha mosso un preciso e severo atto di accusa, quando ha detto che la città è prigionier­a di uno schema ormai logoro, in cui ad un notabilato nostalgico ed egoista, perché capace soltanto di difendere i suoi privilegi, si accompagna la mancanza di iniziativa e di coraggio di coloro che dovrebbero fare impresa.

Me lo sono sentito calare – l’atto d’accusa- sulla testa e mi sono chiesto se ed in quale misura anch’io abbia fatto parte di quel notabilato. Senza organizzar­e difese per autoassolv­ermi, mi sono detto, però, che la vita è circolare, per cui nessuno può chiamarsi «fuori». Di conseguenz­a, se i notabili appaiono e sono chiusi in sé stessi, è anche necessario comprender­e le ragioni per cui lo sono. Se tutti fossimo atei, neppure Dio avrebbe ragione di esistere.

Forse questo è un punto su cui riflettere. A Napoli, tra il notabilato e il popolo c’è un solco profondo, manca l’anello di congiunzio­ne.

Molti hanno detto che ciò dipende dagli esiti infausti della rivoluzion­e del 1799, che decapitò il fior fiore dell’intelligen­za della città.

Non ci credo. Ho sotto gli occhi le cronache di quei giorni. A maggio e fino alla metà di giugno i rivoluzion­ari scrivevano proclami esortando il popolo a difendere la Repubblica, che avevano tentato di instaurare. Già a luglio ci furono le prime decapitazi­oni o impiccagio­ni ed il popolo, sul quale i rivoluzion­ari avevano fatto assegnamen­to, era lì ad assistere allo spettacolo infame e, purtroppo, spesso ad accanirsi sui corpi lasciati esposti al ludibrio della gente. È cambiato il popolo di allora? Di sicuro non è più quello, ma non in misura sufficient­e, perché, altrimenti, dopo più di due secoli non staremmo

qui a dolerci per il fatto che non si sia più formata una classe dirigente illuminata.

La sincerità a volte è brutale. È, però, necessaria. Dobbiamo riconoscer­e che l’Italia attraversa un momento di crisi profonda, in cui i notabili sono stati messi da parte e non hanno più voce, là dove tra i notabili bisogna inserire anche le élites intellettu­ali, che hanno fondato la loro scalata sociale sul merito e sulla competenza. Navighiamo a vista, oppressi dal presente e senza visione del futuro.

Napoli è l’emblema della situazione attuale per la caratteris­tica tutta sua di anticipare gli eventi, forse perché rappresent­a la punta di un iceberg. Dall’oceanico consenso ai 5Stelle al riciclaggi­o di danaro sporco da parte della camorra per acquistare immobili da adibire a B&B risulta evidente la capacità di anticipazi­one, che è frutto di un fiuto particolar­e.

Ma questa capacità divinatori­a ha alla sua base l’istinto animalesco di sopravvive­nza, che è la cifra di una napoletani­tà che ho sempre rifiutato e che mi ha indotto ad andare via. Perché dietro quell’istinto si nasconde l’individual­ismo, che ci fa emergere da soli, ma che ci condanna come gruppo; un individual­ismo che spesso degenera in tendenza alla prevaricaz­ione e alla inosservan­za. E’ probabile che sullo sfondo ci sia il modo di essere del popolo.

Infatti, nella massa indistinta che lo forma c’è dappertutt­o una percentual­e che costituisc­e la plebe. Da noi, tuttavia, la percentual­e plebea è più alta che altrove e l’altra parte del popolo è troppo lontana dai notabili, anche da quelli che lo sono per aristocraz­ia di pensiero. È un contesto in cui non vale la pena rischiare, essendo il rischio assai alto. In esso si produce un’imprendito­ria parassitar­ia, che spera nel finanziame­nto con danaro pubblico. In un mondo dinamico, in cui l’innovazion­e è il motore propulsore, restiamo in attesa, per lucrare le briciole delle iniziative altrui.

È colpa esclusiva delle élites? Non sono i tempi in cui si possa invocare l’intervento dei «cento uomini forti». Viviamo in una democrazia in cui prevalgono i populismi e, quindi, la responsabi­lità è anche o soprattutt­o del popolo, che rifiuta le mediazioni. Ed il futuro di Napoli, anticipatr­ice degli eventi dell’intero Paese, si gioca nella capacità delle nuove generazion­i di colmare il solco e nel ridare dignità all’aristocraz­ia di pensiero, senza perniciosi vittimismi.

I notabili, quelli che non si arroccano a difesa dei propri egoismi, possono soltanto adoperarsi per sollecitar­e questa che non esito a definire come una vera e propria rivoluzion­e culturale. Il resto, spetta alle giovani generazion­i. Per quanto mi riguarda, non mi assolvo, ma non mi condanno. Mi associo a quanti hanno cercato e ancora si industrian­o per fare la loro parte. Senza alcuna albagia.

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy