Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Complice della condanna di maternità
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Gentilissima dottoressa F., mi perdoni se le scrivo personalmente, ma si tratta di una questione che la riguarda, sia in veste di giudice di una causa che mi ha interessata, sia perché anche lei è una donna. Probabilmente nemmeno ricorda il mio nome. Di fascicoli come il mio ne avrà a decine sulla sua scrivania. Inoltre ho motivo di credere che lei nemmeno li legge quei fascicoli. Si tratta di una posizione aperta contro l’Inps per una domanda di disoccupazione che mi sono vista rifiutare. La ragione? Dovrebbe conoscerla, lei stessa l’ha avallata. Nonostante si evinca dalla sentenza che avevo tutti i diritti per ricevere l’indennizzo di disoccupazione a cui faccio riferimento.
Una flag, una crocetta, che mi dicono di non aver apposto in un riquadro (circostanza che io e i miei legali non possiamo verificare perché il materiale è ormai nelle mani dell’Inps), ha determinato il rifiuto della domanda. Questo riquadro faceva riferimento al ritardo con cui presentavo la documentazione necessaria. Nelle note aggiuntive richieste tuttavia, se le avesse lette lo saprebbe bene, ho specificato con chiarezza che quel ritardo (di pochi giorni) era impossibile evitarlo. Dovevo aspettare, come indicato dalle regole, l’ultimo giorno del periodo in cui ho beneficiato della maternità. Lei, con la sua sentenza, ha stabilito che non solo l’Inps non mi deve quanto ho maturato durante il periodo in cui sono stata assunta, ma che dovrò anche pagare le spese di giudizio.
Ora la questione è questa. Da quando sono rimasta incinta, la mia vita professionale ha incontrato solo disagi, discriminazioni e ingiustizie. La prima di queste l’ho subita proprio perdendo il lavoro. Con i bei contratti che ci fanno firmare, noi donne, e di questo credo ne sia al corrente, viviamo sotto ricatto. Vuoi lavorare? Realizzarti professionalmente? Dimentica di essere una donna perché figli non ne potrai avere. Fortunatamente mi è stato riconosciuto, come le dicevo, il diritto alla maternità e con quello sono riuscita ad andare avanti per qualche mese. I soldi della disoccupazione, che pure mi spettavano, mi erano necessari per resistere ancora un po’, visto che una donna con un figlio non la assumono facilmente. Non so se ha figli, ma le assicuro che i pannolini e il latte in polvere costano. Tanto. Troppo.
Se le scrivo questa lettera non è per lamentarmi, ma per una ragione precisa. Quando ho chiesto al mio avvocato il motivo, a me incomprensibile, della sua decisione, mi ha domandato se avevo mai messo piede in un tribunale prima d’ora.
«Vedi», mi ha detto. «Dimentica i film americani. La realtà che noi avvocati affrontiamo ogni giorno è fatta troppo spesso da magistrati onnipotenti che raramente leggono i documenti che presentiamo. Il più delle volte decidono frettolosamente, ma c’è anche chi ritiene più opportuno schierarsi con enti importanti come l’Inps. Naturalmente non è sempre così, ma ripeto, troppo spesso succede questo. Purtroppo ai magistrati non sono imputabili i loro errori».
«Mi scusi», le ho risposto.
«Lei mi sta dicendo che non viviamo in uno stato di diritto? Che le sentenze sono completamente nelle mani di un giudice?».
Prima di rispondermi ci ha pensato.
«Sì».
«E allora a cosa serve il vostro lavoro? Io avevo pieno diritto alla disoccupazione, giusto?».
«Assolutamente sì. Facciamo il nostro lavoro proprio per combattere contro ingiustizie come queste. Quello che anche a me intristisce, è che il giudice in questione era una donna».
Vede dottoressa F., le volevo solo dire che la sua decisione mi ha messa in ginocchio. Ero riuscita a farmi prestare i soldi per affrontare la causa con la certezza di restituirli non appena fossi venuta in possesso di quello a cui avevo diritto. Sono stata un’ingenua. Ora mi trovo nella penosa condizione di avere un debito con chi mi ha aiutato, un debito con l’Inps, e nessuna prospettiva di guadagno. Un mio amico che ha una conoscenza influente e che ha preso a cuore il mio caso e si è dichiarato disponibile a far segnalare il suo operato presso il Csm. L’ho ringraziato ed ho rifiutato. Io vivo in una città dove il ricorso all’uomo forte per ottenere giustizia, si chiama camorra.
Non voglio cedere alle logiche della camorra perché mi ostino a credere che chi svolge un ruolo così delicato come il suo, abbia l’onestà, l’etica e la passione per il proprio lavoro, necessarie per tutelare chi si vede usurpato dei propri diritti. Nel caso specifico, poi, si tratta di diritti negati ad una donna che ha commesso il grave errore di mettere al mondo un figlio. Voi magistrati godete, forse giustamente, di una libertà molto ampia, ma come diceva qualcuno, da grandi poteri derivano grandi responsabilità. Non lo dimentichi, altrimenti rischierà ancora di rendersi complice di una condanna di maternità.
Non ricorrerò in appello. Non ho i soldi per farlo e non posso permettermi di indebitarmi ulteriormente se il mio caso finisse nelle mani di un altro magistrato come lei.
Distinti saluti.
A.
(Questa lettera si riferisce ad un caso realmente accaduto).