Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Diagnosi precoce, più consapevoli al Nord
Blasi: «Al Sud solo il 60% delle donne riceve l’avviso per sottoporsi alla mammografia» Il ruolo delle reti oncologiche in cui gruppi di specialisti pianificano i percorsi per il paziente
«Se in Italia nel 2019 si sono registrate circa 2000 diagnosi di tumore in meno, rispetto al 2018, è anche merito della prevenzione». A dirlo è Livio Blasi, direttore dell’oncologia medica dell’Arnas civico di Palermo e presidente del collegio dei primari ospedalieri di oncologia. Ma secondo il professore, per identificare in tempo un tumore o prevenirlo ci vuole un sistema articolato fatto di educazione della popolazione, screening e collaborazione tra specialisti.
Professor Blasi, cosa significa fare prevenzione oncologica oggi?
«La prevenzione ha diverse fasi, c’è quella primaria, volta ad eliminare i fattori di rischio che possono determinare alcune neoplasie, ad esempio il fumo. L’altra è la prevenzione secondaria, cioè la diagnosi precoce, attraverso gli screening. Nell’oncologia c’è anche la prevenzione terziaria, che è rivolta ai pazienti che hanno già avuto un cancro e serve a evitare le ricadute. In questi casi, si affrontano, tra gli altri, temi come quello dell’attività fisica e dell’alimentazione. Sono gli stessi fattori che si valutano quando si parla di prevendai zione primaria, cioè quando si devono abolire i fattori di rischio».
Per quali patologie è efficace lo strumento dello screening?
«Attualmente si ricorre allo screening per il tumore della mammella, prescrivendo la mammografia, per quello del colon retto, con l’analisi del sangue occulto nelle feci e per quello della cervice uterina, che si individua con il pap-test. Per quanto riguarda il tumore alla mammella, gli screening si rivolgono ad una fascia d’età che va 50 ai 69 anni, ma in alcune regioni si sta ampliando la platea includendo donne tra i 45 e i 74 anni. Per il colon retto si inizia dai 50 anni. Per la cervice uterina, invece, si devono tenere sotto controllo anche le giovani donne».
Quali sono le principali difficoltà che si riscontrano nei programmi di screening?
«C’è una differenza territoriale che riguarda il numero di persone che viene raggiunto dalla lettera dell’Asl, quella in cui si spiega che analisi fare e le modalità, ma anche l’aderenza, cioè quanta gente effettivamente si sottopone alla visita. Prendiamo come esempio il tumore della mammella. Al Nord 98 donne su 100 ricevono l’avviso per sottoporsi ad una mammografia, al Sud solo 60 su 100. Poi c’è il problema dell’aderenza, sempre parlando del cancro al seno, l’adesione è del 68% al Nord, mentre al Sud è di circa 24 punti percentuale in meno. Questa scarsa aderenza ha fatto notare che se la mortalità al Nord per tumore della mammella è diminuita, del Mezzogiorno non si può dire la stessa cosa. In parte questo può dipendere anche dal fatto che le donne meridionali non accedono ad una diagnosi precoce. Identificare presto la malattia, infatti, vuol dire avere più possibilità di guarire».
Dunque, la prevenzione è anche una questione culturale. Come si può migliorare il dato sull’aderenza?
«Sicuramente la bassa aderenza dipende anche dalla mancanza di un’educazione alla salute. Per questo motivo, tutte le campagne dovrebbero partire dal sensibilizzare le persone ad effettuare i test di screening quando arriva l’avviso. Da questo punto di vista, in Sicilia ci sono stati degli accordi con i medici di medicina generale, per esortare a recarsi alle visite. Ci sono poi altri tipi di cancro per cui non esiste uno screening, in cui il ruolo dell’educazione diventa importantissimo. Ad esempio, per il melanoma bisognerebbe insistere nello spiegare quanto sia importante per chi ha dei nei fare dei controlli periodici dal dermatologo, ma anche educare i giovani a prendere il sole responsabilmente. Il ruolo degli stili di vita non va sottovalutato, perché sono tra le cause di alcuni tumori. Prevenire poi fa bene alla sanità nazionale come sistema, perché riduce i costi».
Quali sono gli altri fattori che incidono sulla buona riuscita delle campagne di prevenzione?
«É importante che ci siano reti oncologiche, cioè gruppi di specialisti di diverse discipline che redigono percorsi diagnostici e psicoterapeutici per le singole neoplasie, in cui far rientrare anche la prevenzione. Questo piano deve coinvolgere tutte le strutture sanitarie della zona. Collaborazioni del genere possono fare la differenza in tutte le fasi della malattia, dall’identificazione alla cura. Tuttavia, in Italia la distribuzione è a macchia di leopardo, al Sud sono in Campania, Puglia e stanno nascendo in Sicilia, mentre sono molto attive in Veneto, Piemonte e Toscana».