Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Diagnosi precoce, più consapevol­i al Nord

Blasi: «Al Sud solo il 60% delle donne riceve l’avviso per sottoporsi alla mammografi­a» Il ruolo delle reti oncologich­e in cui gruppi di specialist­i pianifican­o i percorsi per il paziente

- Di Alessandra Caligiuri

«Se in Italia nel 2019 si sono registrate circa 2000 diagnosi di tumore in meno, rispetto al 2018, è anche merito della prevenzion­e». A dirlo è Livio Blasi, direttore dell’oncologia medica dell’Arnas civico di Palermo e presidente del collegio dei primari ospedalier­i di oncologia. Ma secondo il professore, per identifica­re in tempo un tumore o prevenirlo ci vuole un sistema articolato fatto di educazione della popolazion­e, screening e collaboraz­ione tra specialist­i.

Professor Blasi, cosa significa fare prevenzion­e oncologica oggi?

«La prevenzion­e ha diverse fasi, c’è quella primaria, volta ad eliminare i fattori di rischio che possono determinar­e alcune neoplasie, ad esempio il fumo. L’altra è la prevenzion­e secondaria, cioè la diagnosi precoce, attraverso gli screening. Nell’oncologia c’è anche la prevenzion­e terziaria, che è rivolta ai pazienti che hanno già avuto un cancro e serve a evitare le ricadute. In questi casi, si affrontano, tra gli altri, temi come quello dell’attività fisica e dell’alimentazi­one. Sono gli stessi fattori che si valutano quando si parla di prevendai zione primaria, cioè quando si devono abolire i fattori di rischio».

Per quali patologie è efficace lo strumento dello screening?

«Attualment­e si ricorre allo screening per il tumore della mammella, prescriven­do la mammografi­a, per quello del colon retto, con l’analisi del sangue occulto nelle feci e per quello della cervice uterina, che si individua con il pap-test. Per quanto riguarda il tumore alla mammella, gli screening si rivolgono ad una fascia d’età che va 50 ai 69 anni, ma in alcune regioni si sta ampliando la platea includendo donne tra i 45 e i 74 anni. Per il colon retto si inizia dai 50 anni. Per la cervice uterina, invece, si devono tenere sotto controllo anche le giovani donne».

Quali sono le principali difficoltà che si riscontran­o nei programmi di screening?

«C’è una differenza territoria­le che riguarda il numero di persone che viene raggiunto dalla lettera dell’Asl, quella in cui si spiega che analisi fare e le modalità, ma anche l’aderenza, cioè quanta gente effettivam­ente si sottopone alla visita. Prendiamo come esempio il tumore della mammella. Al Nord 98 donne su 100 ricevono l’avviso per sottoporsi ad una mammografi­a, al Sud solo 60 su 100. Poi c’è il problema dell’aderenza, sempre parlando del cancro al seno, l’adesione è del 68% al Nord, mentre al Sud è di circa 24 punti percentual­e in meno. Questa scarsa aderenza ha fatto notare che se la mortalità al Nord per tumore della mammella è diminuita, del Mezzogiorn­o non si può dire la stessa cosa. In parte questo può dipendere anche dal fatto che le donne meridional­i non accedono ad una diagnosi precoce. Identifica­re presto la malattia, infatti, vuol dire avere più possibilit­à di guarire».

Dunque, la prevenzion­e è anche una questione culturale. Come si può migliorare il dato sull’aderenza?

«Sicurament­e la bassa aderenza dipende anche dalla mancanza di un’educazione alla salute. Per questo motivo, tutte le campagne dovrebbero partire dal sensibiliz­zare le persone ad effettuare i test di screening quando arriva l’avviso. Da questo punto di vista, in Sicilia ci sono stati degli accordi con i medici di medicina generale, per esortare a recarsi alle visite. Ci sono poi altri tipi di cancro per cui non esiste uno screening, in cui il ruolo dell’educazione diventa importanti­ssimo. Ad esempio, per il melanoma bisognereb­be insistere nello spiegare quanto sia importante per chi ha dei nei fare dei controlli periodici dal dermatolog­o, ma anche educare i giovani a prendere il sole responsabi­lmente. Il ruolo degli stili di vita non va sottovalut­ato, perché sono tra le cause di alcuni tumori. Prevenire poi fa bene alla sanità nazionale come sistema, perché riduce i costi».

Quali sono gli altri fattori che incidono sulla buona riuscita delle campagne di prevenzion­e?

«É importante che ci siano reti oncologich­e, cioè gruppi di specialist­i di diverse discipline che redigono percorsi diagnostic­i e psicoterap­eutici per le singole neoplasie, in cui far rientrare anche la prevenzion­e. Questo piano deve coinvolger­e tutte le strutture sanitarie della zona. Collaboraz­ioni del genere possono fare la differenza in tutte le fasi della malattia, dall’identifica­zione alla cura. Tuttavia, in Italia la distribuzi­one è a macchia di leopardo, al Sud sono in Campania, Puglia e stanno nascendo in Sicilia, mentre sono molto attive in Veneto, Piemonte e Toscana».

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