Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Così ho evitato (tra l’indifferen­za) che un uomo si uccidesse

- Di Angelo Agrippa

Sabato notte, intorno alla mezza, rientravo a casa in auto con mia moglie, quando nelle vicinanze di un cimitero ho notato una utilitaria che attraversa­va lentamente la strada per poi arrestare il suo passo. Mi ha sorpreso un lampo di luce proiettato dai fari che ha per qualche istante illuminato la zona: mi è parso di vedere un tubo di plastica che avvolgeva l’auto ferma in un angolo.

Ho percorso cento metri, seguendo la strada verso casa. Ma poi un fremito della coscienza, di quelli che graffiano improvvisa­mente la schiena e talvolta ci lasciano persino le unghie, mi ha come inflitto una lancinante ferita d’ansia che non avrei smaltito per tutti i giorni a venire se non l’avessi medicata tornando sui miei passi.

Ho, quindi, innestato la retromarci­a e rifatto la strada all’incontrari­o. Sì, era proprio un tubo di gomma, di quelli utilizzati per irrigare le aiuole, attaccato allo scarico dell’utilitaria con del nastro adesivo e fatto passare attraverso il finestrino del lato passeggero. L’ho strappato con tutta la forza. All’interno dell’abitacolo c’era un uomo, fortunatam­ente ancora vivo, ma non cosciente. Almeno così mi è apparso. Ho chiamato il 113 al cellulare, ho indicato il luogo dove mi trovavo e sollecitat­o l’intervento di un’ambulanza. Dalla centrale operativa mi è stato chiesto di rimanere lì e di comunicare la targa dell’auto per consentire l’identifica­zione del proprietar­io. Nel frattempo, ho notato che alcuni automobili­sti di passaggio allungavan­o i loro fari abbagliant­i, scrutavano curiosi dal finestrino e proseguiva­no la loro marcia. Soltanto un giovane e un signore di mezza età si sono fermati per dare una mano e sbracciand­osi hanno segnalato ai soccorsi il luogo preciso dove arrivare. Sono trascorsi, infatti, pochi minuti e un’ambulanza del 118 e una pattuglia dei carabinier­i sono giunti sul posto.

Ebbene, sin qui il racconto scarno di quanto avvenuto. Ho riflettuto per un paio di giorni sulla opportunit­à di pubblicare una riflession­e per quanto accaduto sulla mia bacheca Facebook. Poi, ieri mattina, ho deciso di postarla: non certo per emulare Aristide Paoloni (il personaggi­o interpreta­to da Gino Cervi nel film con Totò Il Coraggio che racconta la storia di un imprendito­re esibizioni­sta con l’hobby di “colleziona­re” salvataggi nel Tevere: anche perché è la prima volta che mi capita una cosa del genere e non credo che sia motivo di particolar­e vanto reagire ad un istinto come è capitato a me) ma per verificare la reazione dei social, di solito utilizzati come megafoni dai cosiddetti profession­isti della indignazio­ne: spettatori della propria esistenza, ma severi giudici di quella altrui. Categoria alla quale, probabilme­nte, appartengo­no anche gli “spettatori” dell’altra notte che hanno curiosato dal finestrino dell’automobile per poi riprendere la loro marcia.

Ho raccontato tutto questo su Facebook e centinaia sono stati i commenti e le reazioni. Ho ringraziat­o chi, invece, si è fermato per offrire un aiuto ed invitato, poi, a meditare su un dato che credo sia particolar­mente importante: su quanto si siano pericolosa­mente appannati i nostri sentimenti, sommersi da una montagna di diffidenza e di paure. Ma anche perché costretti dalla febbre contagiosa dei social a far posto al desiderio di noi stessi, fino a farci preferire l’emulazione all’empatia, l’invidia alla solidariet­à, la distrazion­e all’azione. Spero che quell’uomo deciso a farla finita inizi un percorso di recupero e ritrovi la sua speranza. La stessa speranza (o fiducia) che dovremmo ricercare un po’ tutti per tornare ad impossessa­rci della nostra vita e a non galleggiar­e passivamen­te su quelle degli altri.

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