Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Così ho evitato (tra l’indifferenza) che un uomo si uccidesse
Sabato notte, intorno alla mezza, rientravo a casa in auto con mia moglie, quando nelle vicinanze di un cimitero ho notato una utilitaria che attraversava lentamente la strada per poi arrestare il suo passo. Mi ha sorpreso un lampo di luce proiettato dai fari che ha per qualche istante illuminato la zona: mi è parso di vedere un tubo di plastica che avvolgeva l’auto ferma in un angolo.
Ho percorso cento metri, seguendo la strada verso casa. Ma poi un fremito della coscienza, di quelli che graffiano improvvisamente la schiena e talvolta ci lasciano persino le unghie, mi ha come inflitto una lancinante ferita d’ansia che non avrei smaltito per tutti i giorni a venire se non l’avessi medicata tornando sui miei passi.
Ho, quindi, innestato la retromarcia e rifatto la strada all’incontrario. Sì, era proprio un tubo di gomma, di quelli utilizzati per irrigare le aiuole, attaccato allo scarico dell’utilitaria con del nastro adesivo e fatto passare attraverso il finestrino del lato passeggero. L’ho strappato con tutta la forza. All’interno dell’abitacolo c’era un uomo, fortunatamente ancora vivo, ma non cosciente. Almeno così mi è apparso. Ho chiamato il 113 al cellulare, ho indicato il luogo dove mi trovavo e sollecitato l’intervento di un’ambulanza. Dalla centrale operativa mi è stato chiesto di rimanere lì e di comunicare la targa dell’auto per consentire l’identificazione del proprietario. Nel frattempo, ho notato che alcuni automobilisti di passaggio allungavano i loro fari abbaglianti, scrutavano curiosi dal finestrino e proseguivano la loro marcia. Soltanto un giovane e un signore di mezza età si sono fermati per dare una mano e sbracciandosi hanno segnalato ai soccorsi il luogo preciso dove arrivare. Sono trascorsi, infatti, pochi minuti e un’ambulanza del 118 e una pattuglia dei carabinieri sono giunti sul posto.
Ebbene, sin qui il racconto scarno di quanto avvenuto. Ho riflettuto per un paio di giorni sulla opportunità di pubblicare una riflessione per quanto accaduto sulla mia bacheca Facebook. Poi, ieri mattina, ho deciso di postarla: non certo per emulare Aristide Paoloni (il personaggio interpretato da Gino Cervi nel film con Totò Il Coraggio che racconta la storia di un imprenditore esibizionista con l’hobby di “collezionare” salvataggi nel Tevere: anche perché è la prima volta che mi capita una cosa del genere e non credo che sia motivo di particolare vanto reagire ad un istinto come è capitato a me) ma per verificare la reazione dei social, di solito utilizzati come megafoni dai cosiddetti professionisti della indignazione: spettatori della propria esistenza, ma severi giudici di quella altrui. Categoria alla quale, probabilmente, appartengono anche gli “spettatori” dell’altra notte che hanno curiosato dal finestrino dell’automobile per poi riprendere la loro marcia.
Ho raccontato tutto questo su Facebook e centinaia sono stati i commenti e le reazioni. Ho ringraziato chi, invece, si è fermato per offrire un aiuto ed invitato, poi, a meditare su un dato che credo sia particolarmente importante: su quanto si siano pericolosamente appannati i nostri sentimenti, sommersi da una montagna di diffidenza e di paure. Ma anche perché costretti dalla febbre contagiosa dei social a far posto al desiderio di noi stessi, fino a farci preferire l’emulazione all’empatia, l’invidia alla solidarietà, la distrazione all’azione. Spero che quell’uomo deciso a farla finita inizi un percorso di recupero e ritrovi la sua speranza. La stessa speranza (o fiducia) che dovremmo ricercare un po’ tutti per tornare ad impossessarci della nostra vita e a non galleggiare passivamente su quelle degli altri.