Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Armando Punzo: da Napoli alla mia Fortezza
Il regista che ha portato il teatro nel carcere di Volterra si racconta
C’è sempre un cortile nel destino di Armando Punzo: quello della casa natìa nella palazzina di via de Meis che segna il confine fra il quartiere Ponticelli e il comune di Cercola, e quello del carcere di Volterra, dove a partire dal 1988 il regista napoletano ha vissuto la gran parte della sua esperienza artistica. Nel primo ha trascorso l’infanzia sotto gli occhi di mamma Lucia, «la Carabbiniera», «un rettangolo in cui ogni giorno fare e disfare il mondo». Nel secondo, quello di un campetto di calcio all’aperto, dove nell’ora d’aria fare scrittura scenica, da 30 anni, con la Compagnia della Fortezza.
Un filo rosso che lega la storia di un uomo di teatro che ha scelto un luogo non teatrale per portare avanti il suo progetto artistico ed esistenziale, descritto con pulsante vitalità in un libro-testimonianza, Un’idea più grande di
me, edito da Luca Sossella, presentato recentemente al Madre, e frutto delle conversazioni tenute con la studiosa Rossella Menna. E al centro dei dialoghi queste due polarità, la terra d’origine da cui andare via per disegnare una sorta di ciclico ritorno e «per sfuggire a una vita decisa per me dal destino», e quella di adozione, in cui «l’essere eternamente straniero ti permette di tagliare i ponti con la vita. Perché il distacco è una condizione auspicabile, mentre il radicamento è un freno». E in mezzo «il teatro dei miracoli», nato forse con quel pezzo di vetro affumicato e incantatore trovato nella chiesa in ristrutturazione di Cercola e poi elaborato nella ricerca ossessiva di spazi di libertà in tutti in luoghi di reclusione. Origine di un’esperienza senza pari, quella della più longeva avventura artistica in un istituto penitenziario, trasformato da luogo di pena in centro di ricerca teatrale e di sperimentazione permanente. Ma senza intenti forzatamente pedagogici e sociali. La Fortezza è sempre stato soprattutto un luogo di illimitata espressività che ha generato spettacoli memorabili, vincitori fra gli altri di ben sette premi Ubu, dal «Marat Sade» di Weiss ai «Pescecani» tratto da Brecht, dal «Pinocchio. Lo Spettacolo della Ragione», ammirato anche all’auditorium di Scampia nel 2009, ad «Alice nel paese delle meraviglie – Saggio sulla fine di una civiltà», per citare solo degli esempi.
Un’avventura iniziata alzando lo sguardo verso quella rocca appena giunti nel borgo toscano, uno dei tanti toccati in un continuo girovagare «quando si hanno 30 anni e si è in cerca del luogo, quello giusto dove dare una direzione alla propria vita». E quella fortezza, che si era rivelata poi il famigerato carcere di VolterCenerentola» ra, squarciò tutti i veli di incertezza che circondavano Punzo: «Pensavo – scrive - che i detenuti non avevano niente da fare, avevano tantissimo tempo libero e nessun pensiero pregresso del teatro, nessuna eredità. Insieme avremmo potuto fare tutto da capo». E così fu, complice la lungimiranza della giunta volterrana di allora, che iniziò offrendo al regista napoletano un laboratorio di 200 ore, «che presto sarebbero diventate 1500». Ma ancora una volta riecco Napoli, terra di provenienza anche di molti detenuti, che diventavano baricentro di ogni sud: calabresi, siciliani, marocchini e così via. E non fu un caso quindi che il primo spettacolo della Fortezza sia stata «La Gatta di Roberto De Simone. «I ragazzi volevano qualcosa di allegro, cantato», e possibilmente in napoletano, lingua a loro più familiare. «Così il maestro mi diede i diritti, vista la particolarità dell’allestimento e il 15 luglio del 1989 andammo in scena inaugurando la nostra attività». Un cerchio che si chiudeva per poi tornare ad aprirsi, quindi, in un movimento continuo e rotatorio. Che non manca di momenti di sconforto, di ripensamento, ma che alla fine resiste e continua a girare. «Perché – afferma ancora Punzo – non c’è luogo migliore al mondo. Perché gli spazi si affezionano a te e ti chiedono di restare, di amarli, di resistere».