Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Mario Pagano e l’eroismo di Ifigenia
Il Settecento napoletano, così come aveva fatto Aristotele molti secoli prima, teorizzava la necessità di utilizzare il teatro come strumento di formazione e di divulgazione delle virtù, affinché tutti potessero capirle, riconoscerle, e decidere di «vestirle» come un abito. L’espressione è di Francesco Gravina, che nel suo Della Ragione poetica (1708), esaltava i pregi di un’arte che aiutasse a contemplare il bello fino ad incarnarlo.
In ossequio ad una tradizione di studi teatrali così alta ed antica è stata ripubblicata per la Scuola di Pitagora editrice, con il copyright dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, la tragedia Agamennone di Mario Pagano. Questi è più noto come martire della rivoluzione napoletana del 1799 che come saggista, intellettuale e autore di saggi politici e tragedie. L’opera è ora edita per la prima volta con il corredo di apparato critico, introduzione e commento di Silvia Zoppi Garampi, ed è accompagnata da un saggio di Paolo De Angelis, anche lui, come Pagano, avvocato e studioso e per questo attento alle profonde radici classiche che innervano la contemporaneità. La tragedia ci conduce attraverso i sentieri a volte tortuosi che ha avuto la divulgazione del classico e il suo porsi a fondamento anche di una rivoluzione come quella napoletana, sulla scorta dei grandi eroismi patriottici dell’antichità, e della viltà che a volte caratterizza i protagonisti della scena politica. Si tratta di un monodramma scritto nel 1787 da Pagano, che nel suo Discorso sull’origine e natura della poesia rimarcava le differenze rispetto a quel melodramma che in Italia con Metastasio aveva avuto grande diffusione (celebre nella storia di Napoli è l’Achille a Sciro rappresentato alla prima del San Carlo appena inaugurato nel 1737).
L’eroismo è quello di Ifigenia, che sale sul patibolo per ottenere dagli dei una fausta navigazione a favore del suo popolo, i Greci. Il suo sacrificio, in questa versione del mito che risale all’Ifigenia in Aulide di Euripide (ma la tragedia viene condensata in un monologo diviso in quadri intervallati da musica e accompagnati dal pantomimo), è volontario e segna una distanza dall’indeciso Agamennone, suo padre, che non sa risolversi tra le profezie di Calcante e i doveri dell’amore paterno. Ifigenia è un mito molto amato nell’antichità, che per questo lo aveva rivisitato varie volte, con Eschilo ed Ennio, Lucrezio ed Ovidio, passando anche attraverso le riproduzioni iconografiche, che per noi vanno dal VI secolo a .C. al I secolo d.C., con uno dei dipinti pompeiani più noti perché custodito al Museo Nazionale di Napoli. Ma la versione del mito che più piacque al lucano Mario Pagano non è quella scelta da Lucrezio, con Ifigenia sacrificata deliberatamente dal padre come per Eschilo, ma quella che vede la donna protagonista di un eroismo volontario e per questo «modello ideale del cittadino» allora ateniese.
È questo il valore eterno che l’autore volle trasmettere ai suoi contemporanei, unitamente a quello di mostrare quanto funeste fossero le «tenebre della micidiale superstizione» rispetto a quel secolo dei Lumi che rappresentava l’«aurora» cui era affidato il compito di dissiparle. Il lieto fine, infatti, con la magica apparizione di una cerva al posto di Ifigenia, sancisce, oltre alla dipendenza dalla versione euripidea del mito, la «necessaria» sconfitta della superstizione e del dispotismo ecclesiastico, che in quegli anni aveva ricevuto già da parte di altri una certa attenzione. L’opera, come Mario Pagano avrebbe desiderato, negli ultimi mesi è stata rappresentata in teatro non solo a Napoli.