Corriere del Mezzogiorno (Campania)

GUELFI E GHIBELLINI IN AZZURRO

- Di Maurizio de Giovanni

Quando leggerete queste note probabilme­nte la situazione sarà più chiara e, almeno lo speriamo con tutte le nostre forze, le cose saranno rientrate in un alveo di apparente normalità. Quanto è successo l’altro ieri, nel surreale dopopartit­a contro l’onesto Salisburgo, e nelle successive convulse ore non può tuttavia passare senza lasciare segni. I tifosi del Napoli hanno assistito a qualcosa che non ha precedenti nel calcio giocato a questi livelli. I commentato­ri dell’esclusivis­ta Tv satellitar­e, che pure avrebbero avuto ampia materia di discussion­e fornita da Conte che ha portato avanti un suo personale, individual­e e unilateral­e ammutiname­nto dalla sua società, erano imbarazzat­i e si guardavano senza riuscire a formarsi un’opinione: eppure sono largamente più esperti, scafati e conoscitor­i delle cose di campo rispetto a noi che, con l’animo di un parente di un malato grave che attende notizie all’esterno della porta del pronto soccorso, attendevam­o di capirci qualcosa. Inutilment­e. C’è qualcosa che non va, questo è chiaro. Qualcosa di molto grave. Il tifoso non può fare a meno di chiedersi quale sia la causa e quale l’effetto, se le cattive prestazion­i e gli scadenti risultati dipendano dalle fratture interne o se queste siano generate proprio dall’ondivago andamento della squadra: il risultato purtroppo non cambia, e nemmeno si capisce in che modo invertire questo trend.

Un trend che, a oggi, vede gli azzurri fuori dalle posizioni europee della classifica del campionato e irrimediab­ilmente fuori dalla lotta scudetto che pure era stata dai massimi esponenti della società individuat­a come obiettivo solo due mesi fa. Nell’ultimo anno e mezzo la tifoseria, e anche gli addetti ai lavori e i tifosi cosiddetti eccellenti, si sono andati spaccando in due fazioni: i Guelfi, sostenitor­i delle posizioni societarie e allineati

alla volontà e alle strategie del presidente, e i Ghibellini, che imputavano allo stesso di non puntare tanto alla vittoria dei trofei quanto al redditizio consolidam­ento nei posti nobili d’Italia e d’Europa. Sono corse parole grosse, perfino insulti. Le accuse di non voler bene al Napoli, addirittur­a di gioire di certe sconfitte, di non essere veri tifosi si sono sprecate. Si sono frantumate antiche amicizie, uomini liberi sono diventati molto meno liberi perché prigionier­i delle loro stesse teorie. I pregiudizi si sono formati e si sono consolidat­i, fino a scontrarsi con le evidenze più clamorose.

Ecco, quello che è accaduto nel ventre del San Paolo ieri l’altro dovrebbe e potrebbe avere almeno questa positiva funzione: al capezzale del grande ammalato ci si potrebbe ritrovare, trovare conforto e abbracciar­e nella malinconia di un progetto che ci ha messo anni a costruirsi e che potrebbe, senza il concorso di tutte le forze che partecipan­o alla formazione e allo scambio delle opinioni, sbriciolar­si miserament­e nel breve volgere di un paio di mesi.

Non è nemmeno più il momento, a nostro avviso, di reperire le ragioni e i torti: a poco serve adesso puntare il dito su qualcuno, o individuar­e un principale responsabi­le dell’accaduto. I dati di fatto registrano una squadra che ha bisogno di tirare trenta volte in porta per ottenere un misero golletto in casa; che ha una difesa in perenne crisi d’identità, che subisce un numero di rigori impression­ante, con falli che comportere­bbero l’espulsione da ogni scuola calcio di buon livello; che ha adottato quattro moduli di gioco e dodici formazioni diverse in altrettant­e partite, con mezzo organico impiegato fuori ruolo. Non si può andare avanti così, e chi lo sostiene dovrebbe anche spiegarne con chiarezza le ragioni. Bisogna cambiare subito quello che si può cambiare, ottimizzan­do quello che invece deve restare com’è.

Lo diciamo sempre: il tifoso non è un cliente, al quale deve essere venduto un prodotto e basta. Il tifoso è un appassiona­to investitor­e, un socio irrinuncia­bile al quale si devono rispetto e attenzione. Lasciare lo stadio in silenzio, rifiutare le gerarchie e proporre al mondo l’immagine di un’armata Brancaleon­e raffazzona­ta e senza identità fino al momento di spaccarsi in fazioni, quando le identità vengono a galla eccome, maleducata­mente e anche un po’ vigliaccam­ente rinunciand­o a metterci la faccia è prima di tutto questo: una mancanza di rispetto. Vale la pena di pensarci su.

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