Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Il miraggio del lavoro e il rischio di rifiutare un possibile «posto fisso»
Quand’ero ragazzo, avevo una fidanzatina che vantava genitori importanti. Io no. Nel senso che i miei genitori erano importanti per me, ma nella scala infame delle gerarchie sociali non si può dire che occupassero un posto di primaria importanza, ecco. La mia fidanzatina, invece, aveva un papà che era un mega dirigente di un ente pubblico e contava su amicizie e contatti di rango. Lo capii ben presto perché quando la accompagnavo a casa la sera, spesso davanti al portone stazionavano auto scure con autisti abbigliati con abiti degli stessi toni di colore delle auto.
Ero un ragazzino educato e perbene perché a casa mia potevano mancare i soldi, ma non la cultura (mio padre era autodidatta ma era un lettore vorace e onnivoro) e l’educazione (mia madre era una cultrice dei modi garbati e della gentilezza).
Queste caratteristiche facevano di me un fidanzatino accettabile benché sprovvisto di natali blasonati. Ecco perché un giorno la mia fidanzatina mi portò una busta e me la consegnò all’uscita del cinema. Cos’è? Chiesi. Te la manda papà. Aprii con una certa curiosità mista a una strana apprensione: il papà della mia fidanzatina era un uomo corpulento e alquanto burbero, di poche parole, diciamo. Cosa diavolo poteva contenere quella busta? Aprila... mi suggerì lei. Lo feci.
Dentro c’era un modulo di richiesta di assunzione in un istituto bancario di primaria importanza. Io mi ero appena iscritto all’università. Facoltà di scienze politiche. Sognavo di fare il giornalista o il diplomatico. Ma erano sogni, appunto, che si infrangevano davanti al fatto che mio padre era un ostricaro, figlio di ostricai, e mia madre una casalinga. Lì dentro c’era la possibile soluzione ai miei problemi.
Il posto fisso: sedici mensilità, il sogno piccolo borghese di chiunque. Farfugliai qualcosa senza riuscire a superare il livello di intelligibilità. Mi venne incontro lei: papà ha detto che, se la firmi, riesce a farti entrare in banca. Rimasi lì imbambolato, non sapevo cosa rispondere. Il posto fisso... il sogno di chiunque altro della mia generazione. Ma io sognavo altro. Ed ero combattuto tra l’idea di inseguire i miei desideri, benché fossero velleitari, data la situazione dell’editoria al sud (la crisi esisteva già quaranta anni fa) e l’idea del posto sicuro, qualunque esso fosse, purché si trattasse di una relazione professionale garantita a vita con una grande struttura nazionale.
Voi che avreste fatto? Io rifiutai. Ma non dissi nulla a casa. Perché non avrei potuto sostenere un cazziatone di mio padre o di mia madre di fronte a un rifiuto che correva il rischio di apparire sciocco ed inspiegabile. Mentre tornavo a casa mi sembrava di sentire già la voce delusa di mia madre: ma come, con questi chiari di luna...
Il destino mi ha perdonato e mi ha offerto un’altra possibilità. Sono un uomo decisamente fortunato, perché sono riuscito a fare il lavoro che sognavo. E questa fortuna (come spiega James Hillman in quel bellissimo saggio che si intitola Il codice dell’anima) non capita a tutti. Perché non tutti (spiega il grande psicanalista) riescono a intercettare il proprio daimon, la propria vocazione. È per questo che non mi sento di biasimare quelle migliaia di ragazzi che si sono messi in coda nella speranza di vincere il concorso e trovare un posto fisso. Nei giorni scorsi sono arrivati i primi responsi: qualcuno avrà gioito, molti saranno stati costretti a dire addio all’ennesima speranza. In una città dove il lavoro è un miraggio, concedersi il lusso di inseguire i propri sogni e immaginare di riuscire a fare il lavoro per cui ci si sente vocati rischia ormai di sembrare una velleità. E questa, in fondo, è la parte più triste di questa storia.