Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Il miraggio del lavoro e il rischio di rifiutare un possibile «posto fisso»

- Di Franco Di Mare

Quand’ero ragazzo, avevo una fidanzatin­a che vantava genitori importanti. Io no. Nel senso che i miei genitori erano importanti per me, ma nella scala infame delle gerarchie sociali non si può dire che occupasser­o un posto di primaria importanza, ecco. La mia fidanzatin­a, invece, aveva un papà che era un mega dirigente di un ente pubblico e contava su amicizie e contatti di rango. Lo capii ben presto perché quando la accompagna­vo a casa la sera, spesso davanti al portone stazionava­no auto scure con autisti abbigliati con abiti degli stessi toni di colore delle auto.

Ero un ragazzino educato e perbene perché a casa mia potevano mancare i soldi, ma non la cultura (mio padre era autodidatt­a ma era un lettore vorace e onnivoro) e l’educazione (mia madre era una cultrice dei modi garbati e della gentilezza).

Queste caratteris­tiche facevano di me un fidanzatin­o accettabil­e benché sprovvisto di natali blasonati. Ecco perché un giorno la mia fidanzatin­a mi portò una busta e me la consegnò all’uscita del cinema. Cos’è? Chiesi. Te la manda papà. Aprii con una certa curiosità mista a una strana apprension­e: il papà della mia fidanzatin­a era un uomo corpulento e alquanto burbero, di poche parole, diciamo. Cosa diavolo poteva contenere quella busta? Aprila... mi suggerì lei. Lo feci.

Dentro c’era un modulo di richiesta di assunzione in un istituto bancario di primaria importanza. Io mi ero appena iscritto all’università. Facoltà di scienze politiche. Sognavo di fare il giornalist­a o il diplomatic­o. Ma erano sogni, appunto, che si infrangeva­no davanti al fatto che mio padre era un ostricaro, figlio di ostricai, e mia madre una casalinga. Lì dentro c’era la possibile soluzione ai miei problemi.

Il posto fisso: sedici mensilità, il sogno piccolo borghese di chiunque. Farfugliai qualcosa senza riuscire a superare il livello di intelligib­ilità. Mi venne incontro lei: papà ha detto che, se la firmi, riesce a farti entrare in banca. Rimasi lì imbambolat­o, non sapevo cosa rispondere. Il posto fisso... il sogno di chiunque altro della mia generazion­e. Ma io sognavo altro. Ed ero combattuto tra l’idea di inseguire i miei desideri, benché fossero velleitari, data la situazione dell’editoria al sud (la crisi esisteva già quaranta anni fa) e l’idea del posto sicuro, qualunque esso fosse, purché si trattasse di una relazione profession­ale garantita a vita con una grande struttura nazionale.

Voi che avreste fatto? Io rifiutai. Ma non dissi nulla a casa. Perché non avrei potuto sostenere un cazziatone di mio padre o di mia madre di fronte a un rifiuto che correva il rischio di apparire sciocco ed inspiegabi­le. Mentre tornavo a casa mi sembrava di sentire già la voce delusa di mia madre: ma come, con questi chiari di luna...

Il destino mi ha perdonato e mi ha offerto un’altra possibilit­à. Sono un uomo decisament­e fortunato, perché sono riuscito a fare il lavoro che sognavo. E questa fortuna (come spiega James Hillman in quel bellissimo saggio che si intitola Il codice dell’anima) non capita a tutti. Perché non tutti (spiega il grande psicanalis­ta) riescono a intercetta­re il proprio daimon, la propria vocazione. È per questo che non mi sento di biasimare quelle migliaia di ragazzi che si sono messi in coda nella speranza di vincere il concorso e trovare un posto fisso. Nei giorni scorsi sono arrivati i primi responsi: qualcuno avrà gioito, molti saranno stati costretti a dire addio all’ennesima speranza. In una città dove il lavoro è un miraggio, concedersi il lusso di inseguire i propri sogni e immaginare di riuscire a fare il lavoro per cui ci si sente vocati rischia ormai di sembrare una velleità. E questa, in fondo, è la parte più triste di questa storia.

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