Corriere del Mezzogiorno (Campania)
CAPITALI ESTERI PER IL SUD
Il Mezzogiorno ha uno straordinario bisogno di capitali da investire. È vero per l’industria, ma anche per le infrastrutture. Lo si è posto in rilievo qualche settimana fa nel corso della presentazione del Rapporto Svimez, ma è un tema che da lungo tempo accompagna il dibattito sulle politiche di sviluppo da realizzare nel Sud. Ne consegue la centralità di capitali esterni, a causa della cronica incapacità delle regioni meridionali di finanziare le attività produttive. Fin qui nulla di eccezionale: tutte le aree che soffrono per carenza di sviluppo avvertono l’esigenza di un apporto determinante di questi capitali. Dal 1950 e per vari decenni successivi vi ha provveduto l’intervento straordinario con massicci investimenti pubblici, in parte finanziati da organismi di credito internazionali, come la Banca Mondiale e la Banca europea per gli investimenti. Quando negli anni Novanta si è inaugurato il percorso «senza Cassa», gli investimenti sono diminuiti sensibilmente. In questa congiuntura non certo favorevole si è evidenziata la presenza di capitale estero negli stabilimenti produttivi meridionali. Mentre il capitale privato italiano ha manifestato una maggiore titubanza. Non per riprendere acriticamente le tesi del ministro Provenzano, però è un dato di fatto che il logoramento del clima di coesione nazionale di questi ultimi decenni ha accentuato processi economici concentrati sul proprio «particulare», da intendere in senso spiccatamente territoriale.
E che comunque vi è un’accentuazione del dualismo, senza che affiori una preoccupazione sentita allo stesso modo «al Sud come al Nord» per il rimarcarsi dei divari. Insomma, personalità settentrionali come Giuseppe Cenzato e Rodolfo Morandi che nel secondo dopoguerra si immersero nella questione meridionale non se ne vedono in giro.
Così il capitale estero è divenuto più rilevante nel Mezzogiorno. Come pure gruppi mondiali hanno mostrato significativo interesse per la formazione universitaria: si pensi a quanto si è realizzato a San Giovanni a Teduccio dalla Federico II nell’area industriale ex Cirio, oggi simbolo della rigenerazione urbana di Napoli, un polo di attrazione per grandi aziende, quali Apple e Cisco.
Ma se si vuole che i capitali esteri giungano abbondanti dalle nostre parti è necessario che il Mezzogiorno sia attrattivo. E su questo, a proposito delle vicende ex Ilva e della Whirlpool, tutti, in primo luogo i rappresentanti più eminenti della classe dirigente locale, debbono recitare il «mea culpa». Troppa superficialità, che a volte sconfina nell’irresponsabilità nell’esercizio del potere, fa perdere di vista che la politica è visione, bene comune, progettualità e lungimiranza. Come pure le continue liti ispirate a un puro protagonismo fine a se stesso, l’incapacità di terminare opere pubbliche essenziali, rendono i nostri territori privi di una guida politica ben riconoscibile, autorevole, affidabile. Accade pertanto che si venga a investire, ma poi si decida di andarsene trattando il Sud — come è stato rilevato in questi giorni — da «colonia».
Non si tratta di negare il comportamento «indifendibile» degli investitori esteri; se si vuole, questo è un aspetto assolutamente scontato. Quello che colpisce è la pochezza nell’interlocuzione, l’irrilevanza nel controbattere alle decisioni che i gruppi esteri assumono sulla pelle di migliaia di operai e delle loro famiglie. Davvero il Mezzogiorno non merita di essere così maltrattato: mai come ora è urgente chiedersi come si è potuti giungere a questo punto senza avere gli strumenti adeguati per evitare il profilarsi di situazioni drammatiche. Speriamo che ancora una volta la politica non sfugga alle sue “nobili” responsabilità.