Corriere del Mezzogiorno (Campania)
MERIDIONE LA FUGA DEI MIGLIORI
Nel libro la battaglia persa per approdare alla socialdemocrazia
L’ultimo rapporto Censis consegna una fotografia impietosa del Paese. A leggere gli indicatori demografici l’Italia appare «rimpicciolita, invecchiata, con pochi giovani e pochissime nascite»: meno 124.427 residenti in un anno. Dal 2015 meno 436.066 cittadini nonostante i 241.066 stranieri residenti. La bassa natalità si unisce all’invecchiamento della popolazione. Tra vent’anni su una popolazione di meno di 60 milioni di abitanti gli anziani saranno più degli under 35. Pesa ovviamente il fenomeno dell’emigrazione verso l’estero: in un decennio, oltre 400 mila 18-39enni sono emigrati e oltre 138 mila giovani con meno di 18 anni. Il Sud è il territorio che sta pagando più di tutti gli effetti demografici. Siamo di fronte allo spopolamento e alla desertificazione. In soli quattro anni, dal 2015 al 2019, il Mezzogiorno nel suo insieme ha perso complessivamente quasi 310 mila abitanti. Se confrontiamo questi dati con quelli pubblicati dal Rapporto Svimez 2019 la situazione diventa ancora più drammatica. Dal 2000 ad oggi la popolazione al Sud è diminuita di 642 mila unità. Se non ci sarà un’inversione di rotta nei prossimi 50 anni il Sud perderà 5 milioni di residenti. Questo significherebbe far diventare irreversibile la crisi economica e di sviluppo che attanaglia il Sud.
Nel 1989 il giovane Umberto Ranieri è già un comunista con le stellette. È cresciuto a pane e partito, consigliere comunale a Napoli, segretario della federazione cittadina del Pci, dirigente nazionale. E nel 1989, leggendo le pagine del suo diario, lo troviamo che gira come una trottola il paese, in auto, in treno, percorre la Sicilia del principe di Salina, le ricche campagne del mantovano, le terre ispide di Carlo Levi, fa la spola tra Milano e Bologna, pernotta nella Stradella di Depretis e poi a Pavia, Macerata, Catanzaro, coordina gli «attivi» del Pci, tiene comizi per le elezioni.
I partiti coltivano ancora intensi rapporti con i territori e Ranieri macina chilometri su chilometri fra Botteghe Oscure e le periferie, discute con i militanti locali, mangia il ragù in Sicilia e gli strascinati con le rape in Basilicata, il pesce fresco nelle trattorie del Ponente ligure e la soppressata con i pomodori secchi a Catanzaro, ascolta davanti a un bicchiere di vino le mitiche storie comuniste che gli raccontano i vecchi compagni di qualche sperduto centro. C’è solo la politica, solo il partito e non più che spiccioli di vita normale; ogni tanto un film, Woody Allen più che Nanni Moretti, la musica, Brahms e Springsteen, le letture, il pallone, la Coppa Uefa di Maradona. «L’unica consolazione — annota a un certo punto — è che tra pochi giorni iniziano i campionati mondiali di calcio».
Ma il 1989 non è un anno qualunque. Nel 1989, tumultuosamente, la Porta di Brandeburgo si apre e, se non è la fine della storia, certo è la fine del partito di Togliatti e Berlinguer. E qui il diario di Ranieri assume una forte pregnanza storica. E personale. Quel crollo, Ranieri sa di non poterlo guardare da lontano: «Muore il totalitarismo comunista», scrive senza mezzi termini, ma, aggiunge, «è la fine, oltre che del comunismo reale, anche di quello ideale». Di quello cioè che ha legittimato fin dalle origini il Pci. «Siamo noi gli sconfitti», scrive.
Il teatro del 1989 gli appartiene, appartiene al suo partito. Anche nella strage di Tienanmen non può che riconoscere «la nostra storia terribile». Ma ormai è troppo tardi per scindere le responsabilità, per credere che i comunisti italiani non abbiano «nulla da spartire con i satrapi dell’Est». Troppo tardi per chiedere, come faranno Michele Salvati e Salvatore Veca su Rinascita, che il partito cambi nome. Troppo tardi per riconoscere che «c’era una volta Togliatti», come titolerà un famoso articolo di Biagio de Giovanni sull’Unità.
Il comunismo europeo è finito, Gorbacev ha rinunciato alla forza, la prigione si è aperta. E il Pci non può fare ora, di fronte alle spoglie del leninismo sovietico, quel che non ha fatto nei decenni della sua storia.
Di tutto questo, il diario di Ranieri è un’amara quanto onesta testimonianza. Ranieri è esponente di quell’area «migliorista» che a lungo ha insistito sulla necessità di innervare la tradizione comunista con il socialismo occidentale.
E ora, di fronte al collasso sovietico, sembrerebbe ovvio e urgente affrontare un simile ritardo. Ma nulla accade. Anche chi come il segretario Achille Occhetto si fa promotore della «grande svolta» resta in mezzo al guado. Ranieri è tra i pochi che chiedono l’approdo alla socialdemocrazia, ma sono molti di più coloro che non intendono fare i conti con il fallimento comunista. Natta interrompe platealmente i suoi interventi pubblici, Pajetta sbuffa infastidito, Livia Turco polemizza, Mussi è rudemente ostile, anche Reichlin rifiuta di «gettare alle ortiche la storia del
Pci». Dilaga il massimalismo. La platea osanna un Ingrao che usa toni fondamentalisti, scrive immalinconito Ranieri. Ma talvolta, a leggere il suo diario, l’impressione non è neppure di una grande battaglia ideale, di uno storico redde rationem, quanto di un conflitto tra pezzi di partito che non si sono mai accettati o si sono accettati soltanto per amor di patria.
C’è un sentore di faide, intolleranze personali, vecchi rancori non più messi a tacere dal centralismo. E poi c’è, insuperabile, il muro dell’ostilità che divide il Pci dal Psi. I tempi del socialfascismo sono lontani, ma resta l’impossibilità di dirsi socialisti. Quando Craxi manderà a Ranieri un biglietto di apprezzamento per le sue posizioni politiche, avrà cura di metterlo in un plico senza mittente.
Non basta neppure il crollo del Muro a trasformare il Pci in un partito socialista. La prospettiva di una sinistra non comunista che si candidi al governo del paese naufraga nella continuità della classe dirigente del Pds-Ds e di una cultura politica che alla doppiezza togliattiana aggiunge la retorica della diversità di Berlinguer. Naufraga con le monetine del Raphael. Un fallimento dal quale emergerà l’esperienza del Partito democratico, cioè il fragile tentativo di costruire un partito socialista e liberale sulle ceneri della sinistra comunista e democristiana. Anche Umberto Ranieri percorrerà questa strada accidentata. Ma certo senza esserne sempre convinto.
La rotta L’ala migliorista insistè sulla necessità di orientarsi verso il socialismo, ma non è accaduto