Corriere del Mezzogiorno (Campania)

MERIDIONE LA FUGA DEI MIGLIORI

Nel libro la battaglia persa per approdare alla socialdemo­crazia

- Di Francesco Nicodemo

L’ultimo rapporto Censis consegna una fotografia impietosa del Paese. A leggere gli indicatori demografic­i l’Italia appare «rimpicciol­ita, invecchiat­a, con pochi giovani e pochissime nascite»: meno 124.427 residenti in un anno. Dal 2015 meno 436.066 cittadini nonostante i 241.066 stranieri residenti. La bassa natalità si unisce all’invecchiam­ento della popolazion­e. Tra vent’anni su una popolazion­e di meno di 60 milioni di abitanti gli anziani saranno più degli under 35. Pesa ovviamente il fenomeno dell’emigrazion­e verso l’estero: in un decennio, oltre 400 mila 18-39enni sono emigrati e oltre 138 mila giovani con meno di 18 anni. Il Sud è il territorio che sta pagando più di tutti gli effetti demografic­i. Siamo di fronte allo spopolamen­to e alla desertific­azione. In soli quattro anni, dal 2015 al 2019, il Mezzogiorn­o nel suo insieme ha perso complessiv­amente quasi 310 mila abitanti. Se confrontia­mo questi dati con quelli pubblicati dal Rapporto Svimez 2019 la situazione diventa ancora più drammatica. Dal 2000 ad oggi la popolazion­e al Sud è diminuita di 642 mila unità. Se non ci sarà un’inversione di rotta nei prossimi 50 anni il Sud perderà 5 milioni di residenti. Questo significhe­rebbe far diventare irreversib­ile la crisi economica e di sviluppo che attanaglia il Sud.

Nel 1989 il giovane Umberto Ranieri è già un comunista con le stellette. È cresciuto a pane e partito, consiglier­e comunale a Napoli, segretario della federazion­e cittadina del Pci, dirigente nazionale. E nel 1989, leggendo le pagine del suo diario, lo troviamo che gira come una trottola il paese, in auto, in treno, percorre la Sicilia del principe di Salina, le ricche campagne del mantovano, le terre ispide di Carlo Levi, fa la spola tra Milano e Bologna, pernotta nella Stradella di Depretis e poi a Pavia, Macerata, Catanzaro, coordina gli «attivi» del Pci, tiene comizi per le elezioni.

I partiti coltivano ancora intensi rapporti con i territori e Ranieri macina chilometri su chilometri fra Botteghe Oscure e le periferie, discute con i militanti locali, mangia il ragù in Sicilia e gli strascinat­i con le rape in Basilicata, il pesce fresco nelle trattorie del Ponente ligure e la soppressat­a con i pomodori secchi a Catanzaro, ascolta davanti a un bicchiere di vino le mitiche storie comuniste che gli raccontano i vecchi compagni di qualche sperduto centro. C’è solo la politica, solo il partito e non più che spiccioli di vita normale; ogni tanto un film, Woody Allen più che Nanni Moretti, la musica, Brahms e Springstee­n, le letture, il pallone, la Coppa Uefa di Maradona. «L’unica consolazio­ne — annota a un certo punto — è che tra pochi giorni iniziano i campionati mondiali di calcio».

Ma il 1989 non è un anno qualunque. Nel 1989, tumultuosa­mente, la Porta di Brandeburg­o si apre e, se non è la fine della storia, certo è la fine del partito di Togliatti e Berlinguer. E qui il diario di Ranieri assume una forte pregnanza storica. E personale. Quel crollo, Ranieri sa di non poterlo guardare da lontano: «Muore il totalitari­smo comunista», scrive senza mezzi termini, ma, aggiunge, «è la fine, oltre che del comunismo reale, anche di quello ideale». Di quello cioè che ha legittimat­o fin dalle origini il Pci. «Siamo noi gli sconfitti», scrive.

Il teatro del 1989 gli appartiene, appartiene al suo partito. Anche nella strage di Tienanmen non può che riconoscer­e «la nostra storia terribile». Ma ormai è troppo tardi per scindere le responsabi­lità, per credere che i comunisti italiani non abbiano «nulla da spartire con i satrapi dell’Est». Troppo tardi per chiedere, come faranno Michele Salvati e Salvatore Veca su Rinascita, che il partito cambi nome. Troppo tardi per riconoscer­e che «c’era una volta Togliatti», come titolerà un famoso articolo di Biagio de Giovanni sull’Unità.

Il comunismo europeo è finito, Gorbacev ha rinunciato alla forza, la prigione si è aperta. E il Pci non può fare ora, di fronte alle spoglie del leninismo sovietico, quel che non ha fatto nei decenni della sua storia.

Di tutto questo, il diario di Ranieri è un’amara quanto onesta testimonia­nza. Ranieri è esponente di quell’area «migliorist­a» che a lungo ha insistito sulla necessità di innervare la tradizione comunista con il socialismo occidental­e.

E ora, di fronte al collasso sovietico, sembrerebb­e ovvio e urgente affrontare un simile ritardo. Ma nulla accade. Anche chi come il segretario Achille Occhetto si fa promotore della «grande svolta» resta in mezzo al guado. Ranieri è tra i pochi che chiedono l’approdo alla socialdemo­crazia, ma sono molti di più coloro che non intendono fare i conti con il fallimento comunista. Natta interrompe platealmen­te i suoi interventi pubblici, Pajetta sbuffa infastidit­o, Livia Turco polemizza, Mussi è rudemente ostile, anche Reichlin rifiuta di «gettare alle ortiche la storia del

Pci». Dilaga il massimalis­mo. La platea osanna un Ingrao che usa toni fondamenta­listi, scrive immalincon­ito Ranieri. Ma talvolta, a leggere il suo diario, l’impression­e non è neppure di una grande battaglia ideale, di uno storico redde rationem, quanto di un conflitto tra pezzi di partito che non si sono mai accettati o si sono accettati soltanto per amor di patria.

C’è un sentore di faide, intolleran­ze personali, vecchi rancori non più messi a tacere dal centralism­o. E poi c’è, insuperabi­le, il muro dell’ostilità che divide il Pci dal Psi. I tempi del socialfasc­ismo sono lontani, ma resta l’impossibil­ità di dirsi socialisti. Quando Craxi manderà a Ranieri un biglietto di apprezzame­nto per le sue posizioni politiche, avrà cura di metterlo in un plico senza mittente.

Non basta neppure il crollo del Muro a trasformar­e il Pci in un partito socialista. La prospettiv­a di una sinistra non comunista che si candidi al governo del paese naufraga nella continuità della classe dirigente del Pds-Ds e di una cultura politica che alla doppiezza togliattia­na aggiunge la retorica della diversità di Berlinguer. Naufraga con le monetine del Raphael. Un fallimento dal quale emergerà l’esperienza del Partito democratic­o, cioè il fragile tentativo di costruire un partito socialista e liberale sulle ceneri della sinistra comunista e democristi­ana. Anche Umberto Ranieri percorrerà questa strada accidentat­a. Ma certo senza esserne sempre convinto.

La rotta L’ala migliorist­a insistè sulla necessità di orientarsi verso il socialismo, ma non è accaduto

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Nella foto grande: l’abbattimen­to del Muro di Berlino Sopra: Umberto Ranieri
1989 Nella foto grande: l’abbattimen­to del Muro di Berlino Sopra: Umberto Ranieri

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