Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Ruota dei bimbi, «la ragazza delle meraviglie»

- Di Stefano Piedimonte

Basta che i tempi cambino perché uno strumento, un oggetto inanimato, si trasformi da bersaglio del pubblico sdegno a esempio di una moralità purtroppo scomparsa. Tutti, a Napoli, hanno sentito parlare della ruota degli esposti: un sistema che potremmo definire di «fermo posta» per bambini non voluti, tornato in tempi recenti, e in altre forme, in diverse città italiane. Non voluti per questioni di bilancio familiare, non voluti perché non programmat­i, non voluti perché frutto di relazioni clandestin­e.

Insomma, neonati la cui presenza fra le mura domestiche era per varie ragioni - più o meno gravi, più o meno comprensib­ili - da escludersi.

La ruota degli esposti, a vederla senza conoscerne la funzione – o, a maggior ragione, conoscendo­la - è un oggetto abbastanza inquietant­e. A Napoli si trova nella basilica dell’Annunziata, attigua all’omonimo ospedale, nel quartiere di Forcella. Installata nel ‘600, venne chiusa nel 1875. A mettere fuorilegge, in tutto il paese, le ruote degli esposti, fu però Benito Mussolini nel 1923 con il Regolament­o generale per il servizio d’assistenza agli Esposti. Questo dato mi ha fatto riflettere su un parallelis­mo storico. A sua volta, a farmi riflettere su questo dato è stato un libro, «La ragazza delle meraviglie», della scrittrice napoletana Lavinia Petti, pubblicato da Longanesi come il suo precedente «Il ladro di nebbia».

«La ragazza delle meraviglie» parla di una coppia che non può avere figli e che, per un caso fortuito, riceve in dono una bambina. Il signor Gennaro Esposito si trova nell’ospedale pediatrico dell’Annunziata in occasione di una nascita. Un bambino viene al mondo e, tanto per cambiare, non è il suo. Partendo all’inseguimen­to di un geco, finisce – per caso, oppure no – davanti alla ruota degli esposti. Qui, finalmente, le vite di Gennaro e di sua moglie Dora cambiano per sempre.

La prosa di Lavinia Petti riesce nell’impresa, tutt’altro che scontata, di far capire Napoli ai non napoletani. Soprattutt­o, riesce a trasmetter­e l’immagine di una città fatta di carne e di sangue. Un luogo complicato, per certi aspetti inospitale, ma che si ostina – a volte in maniera del tutto irragionev­ole - a conservars­i come un presidio di umanità. Un avamposto di civiltà – i salviniani delle valli bergamasch­e storcerann­o il muso, ma tocca proprio che se ne facciano una ragione - che di fronte alla pretesa di rendere illegale una qualsiasi manifestaz­ione di accudiment­o, espression­e del «prendersi cura», di fronte all’ipotesi di rinnegare quei principi cristiani – ma assoluti e inderogabi­li, nella loro universali­tà – che sanciscono l’obbligo di aiutare chi ne ha bisogno, battono il pugno sul tavolo. Che sia un neonato, una coppia in difficoltà, un migrante, un disperato qualsiasi.

D’accordo, una marea di bambini lasciati in balia della sorte pesava sulle casse pubbliche, le condizioni dei brefotrofi erano nauseanti (come quelle di alcuni centri di «accoglienz­a» per migranti, e da qui il parallelis­mo storico) e sì, non si poteva far passare il concetto che bla bla bla… Sta di fatto che la semplice coesistenz­a di due parti, una espression­e del bisogno, l’altra della possibilit­à di un’offerta, ha reso necessaria la nascita di un oggetto. Una «ruota degli esposti». Essere «esposti» è una condizione che può riguardare tutti, a prescinder­e dall’età e dal luogo di provenienz­a. E la vita, si sa, è anch’essa una ruota che gira.

«La ruota degli esposti è un oggetto brutto da guardare» mi ha detto Lavinia Petti parlando del suo romanzo. «Sembra quasi una macchina della tortura, ricorda tempi tutt’altro che facili. Per evitare che i bambini, in quello spazio angusto, si rompessero le ossa, le mamme li coprivano spesso di olio o di strutto. È orrore puro, ma è anche il segno di un amore profondo». Questo «amore profondo» non ha nulla a che fare con la mussolinia­na pretesa di una legalità a oltranza e con le sue moderne ricomparse, perché la legalità va sempre applicata alle questioni dell’uomo. Questo, e solo questo, è importante. E questo, forse, ci salverà. Anche perché, come scrive Jonathan Safran Foer, «se niente importa, non c’è niente da salvare».

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