Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Masaniello «Non era un pasticcione»
Lo studioso: «I giovani supporter del sindaco de Magistris non hanno nulla in comune con i coetanei del ‘600»
Masanielli , al plurale addirittura, titola il settimanale Panorama provando a definire l’ascesa politica di giovani sostenitori del sindaco di Napoli Luigi de Magistris, tutti dello stesso centro sociale. E il povero Tommaso Aniello D’Amalfi si rivolta nella tomba: giovane anche lui e pescivendolo con banco alla Pietra del Pesce, ma ineccepibile e riconosciuto capo militare della prima vera prova rivoluzionaria dell’età moderna, com’è universalmente valutata l’insurrezione napoletana del 1647 contro l’eccessivo fiscalismo del governo vicereale spagnolo.
Sembra sentirgli scricchiolare le ossa oltre la dimessa lastra di marmo dietro l’altare maggiore della chiesa del Carmine che lo ricorda, chiedendosi che male abbia fatto per essere accostato, sempre a sproposito, a ogni maldestro, ambiguo, goffo o, per converso, spregiudicato, corrotto, ambizioso tentativo di scalata al potere, di ribellismo velleitario, di casinismo politico imbelle e purtroppo arraffone. Come se in Italia, a ogni movimento giovanile, tipo le “Sardine” si invocasse lo spettro di Giuseppe Mazzini, perché fu a capo della Giovane Italia.
Eppure, storicamente, Masaniello non fu assolutamente un pasticcione: definitely, direbbero gli anglosassoni, che trattano di solito la storia con rigore. Vero è che la figura del capopopolo fu sovraccaricata dalla parte spagnola, quella lesa, di ogni nefandezza, affibbiandogli l’epiteto di el mayor monstruo del mundo, cliché tuttora imperante in area popolare cattolica, Italia compresa, attributo, già a rivolta in corso, largamente controbilanciato, dal positivo giudizio del “mondo protestante” – tra cui il filosofo olandese Baruch Spinoza e lo statista inglese Oliver Cromwell -, riconoscendo a Masaniello, e al tentativo rivoluzionario da lui capeggiato, di essere fautori della libertà indissolubilmente legata al concetto di giustizia, con echi persino nelle colonie ultramarine.
Sicché, quanti, come Aurelio Musi, studiano seriamente il personaggio, continuano a chiedersi, chi fosse realmente questo giovane ventisettenne, biondo, occhi azzurri e sperti, mustacchi maliziosi, pinocchietto di tela di Acerra e camicia di lino delle Parule, pizzo a riso come se ne vedono tanti tra i giovani partenopei, e le conclusioni non portano a strumentali giochini di palazzo.
Vaglielo a spiegare a Panorama, oppure spiegasse la testata a noialtri, cosa hanno in comune i giovani supporter del sindaco di Napoli con i coetanei di metà ’600; come gli viene in testa di presentarli dopo tre secoli e mezzo per discendenti del rivoltoso e incazzatissimo “popolo” del Siglo de Oro? Non lo sono infatti, né in linea diretta né collaterale, e nemmeno rintracciabili tra alcuna frangia degli insorti. Anzi, se, rispondessero al vero le cose attribuite ai frequentatori del gruppo Insurgencia, così come riportato nell’articolo, dei ragazzi del centro sociale, non sarebbe sopravvissuta una sola mano né una testa, al tempo di Masaniello.
La rivoluzione napoletana fu una cosa terribilmente seria, altroché l’ironica metafora dell’assalto «alla conquista delle poltrone»: durante le abbruciature - cioè gli assalti, quelli veri però, ai palazzi dei ricchissimi appaltatori di gabelle -, dal generale “capopopolo” fu ingiunto agli altrettanto giovani supporters di non toccare una sola forchetta della spoliazione dei sontuosissimi palazzi, pena il taglio della testa. E quei giovani, davanti a tanto bottino, ubbidirono ciecamente. Le cronache d’epoca, di più fonti, sottolineano che non vi fu aggiotaggio personale di una singola suppellettile. I “Masanielli” di Panorama al cospetto di quelli veri impallidiscono come sogliole con il pesce azzurro.
Se volessimo invece vedere nella Napoli odierna una qualche eredità significativa dell’esperienza rivoltosa, potremmo ricercarla in modelli e comportamenti sociali che, spontaneamente come allora, altri giovani partenopei hanno messo in moto autonomamente ridisegnando Napoli nell’immaginario collettivo, scorporando la città dai sempre eccessivi luoghi comuni malavitosi e – come si diceva un tempo- oleografici: ripulire la città, le spiagge, in proprio, ridipingere anche una sola panchina, adottare uno spazio verde, anche una sola aiuola, “muralizzare” intere facciate, edifici, scalinate; “reinventare” il cibo, e con esso il vino e persino la pizza, e pane panuozzi panzerotti; appropriarsi dell’identità partenopea, della prodigalità e bellezza del golfo, parlandone scrivendone, teatralizzandole, filmandole, mettendo su orchestre classiche, jazz e popband, compagnie di quartiere che attraggono turisti e visitatori.
C’è qualcosa, questo sì, che non è molto cambiato della Napoli di Masaniello: il patrimonio artistico-edilizio, ancora massimamente disponibile e spendibile in termini di ritorno culturale ed economico, e il colore/calore di quella capitale cosmopolita, la sola città di epoca moderna, la più popolosa d’Italia dalla caduta di Roma, che, insieme con Venezia, offriva di sé una caleidoscopica verve, il cui paragone era Parigi, a ovest, capitale d’Europa, e a est, Costantinopoli, capitale dell’Impero Ottomano.
” Il confronto La rivoluzione napoletana fu una cosa terribilmente seria, non può essere accostata sempre a sproposito ad ogni tentativo velleitario di scalata al potere