Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Quella bambola semi-clandestin­a che mi aiutava a crescere

- Di Viola Ardone

Vuoi il Commodore 64 o la bambola?

Era il Natale del 1987, il Commodore era una tastiera grigiastra che si collegava al televisore, un protocompu­ter che sembrava il massimo della modernità, come fosse il gemello di Hal 9000 di Odissea nello spazio. La bambola era una barbie bruna, una rarità tra le consorelle tutte biondissim­e e indistingu­ibili l’una dalle altre. Io avevo 13 anni, andavo in terza media e giocavo ancora con le bambole.

Ci giocavo in semiclande­stinità e con un vago senso di colpa.

Vuoi il Commodore 64 o la bambola?

Era il Natale del 1987, il Commodore era una tastiera grigiastra che si collegava al televisore, un protocompu­ter che sembrava il massimo della modernità, come fosse il gemello di Hal 9000 di Odissea nello spazio. La bambola era una barbie bruna, una rarità tra le consorelle tutte biondissim­e e indistingu­ibili l’una dalle altre. Io avevo tredici anni, andavo in terza media e giocavo ancora con le bambole.

Ci giocavo in semiclande­stinità e con un vago senso di colpa: mi piaceva inventare storie e farle recitare alle mie barbie, ma tutte le compagne di classe, compresa la mia amica del cuore Manuela, le avevano abbandonat­e da tempo. A che cosa giocavano, allora, mi chiedevo curiosissi­ma. Quando andavo a casa loro, spiavo le camerette. Gli scaffali un tempo affollati di pupazzi, di abitini rosa e di mobilia commisurat­a alla vita minuta e lussuosa delle barbie erano destinati ad altro. Nella stanza di Manuela era rimasta, in un angolo sotto la finestra, una cesta dalla quale facevano capolino un paio di gambe e un ciuffo di capelli color platino.

Mentre aiutavo la mia amica a fissare alla parete il poster che ritraeva il cantante degli Spandau Ballet, gettavo di tanto in tanto uno sguardo furtivo verso la cesta nella speranza che lei mi invitasse a riprendere quel gioco che per anni, dai tempi delle elementari, ci aveva appassiona­to entrambe. Ma niente. A lei adesso le barbie non piacevano più. Le piaceva invece un ragazzo, Vincenzo Iannelli, che era seduto nella fila dietro la nostra. Mi era sembrato addirittur­a che si fossero scambiati dei bigliettin­i durante l’ora di arte, mentre la Giordano spiegava le differenze tra gotico e romanico.

Cosa ci trovasse Manuela in Vincenzo Iannelli non riuscivo proprio a capirlo. Aveva una peluria scura sul labbro superiore, era più basso di lei di almeno cinque centimetri e non ricordava a memoria nemmeno una delle capitali europee.

E ugualmente non mi spiegavo per quale motivo aveva preso a trafficare con un’agenda con la sovraccope­rta in marocchino marrone — regalatale dal padre che lavorava in banca — in cui andava incollando tutte le foto

del cantante degli Spandau Ballet che riusciva a ritagliare dai numeri del Cioè, che sua madre Floriana le comprava ogni settimana. Io in edicola chiedevo il Super Almanacco Paperino e, di tanto in tanto, i cruciverba facilitati.

L’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze natalizie, Manuela durante l’intervallo lasciò il banco così a lungo condiviso e si ritirò a parlottare con un gruppetto di ragazze della classe, quelle che avevano già il seno. Non mi avvicinai, restai a osservarle dall’altro capo della stanza, seduta al mio posto e guardando il suo, rimasto vuoto. Trascorsi tutto l’intervallo così, ferma e in silenzio. Senza Manuela mi sembrava di aver perduto l’orientamen­to, non sapevo dove andare. Loro intanto ridacchiav­ano coprendosi ogni tanto il viso con le mani. Manuela aveva le guance rosse e una delle compagne, quella con più seno di tutte, le mise una mano sulla spalla.

Quando suonò la campanella e tornò al suo posto, vicino a me, le chiesi di cosa stessero parlando.

«Ieri ho avuto le mie cose», mi disse senza aggiungere altro e si portò le mani sulla pancia. Lo disse come se fosse un discorso per grandi e io fossi solo una bambina. Non chiesi altro. Mi sembrava che da un momento all’altro avesse attraversa­to una barriera invisibile ma invalicabi­le che ci lasciava ai margini opposti di un confine. Pensai che quella barbie dai capelli color platino non sarebbe più venuta fuori dalla cesta. E che presto anche la cesta sarebbe uscita dalla cameretta di Manuela, per sempre. E forse anche io. Mi convinsi che a me non sarebbe mai successo quello che era capitato a lei il giorno prima e che sarei rimasta per sempre incastrata in quell’intercaped­ine grigia tra la barbie bruna e il Commodore 64.

Quando tornai a casa, mio padre mi rifece la domanda. «Allora, hai scelto che regalo vuoi?».

«Io sono troppo grande per le barbie?» chiesi con un’increspatu­ra nella voce.

«Non ti piacciono più?».

«Alle mie amiche no».

«E a te?».

«Non lo so».

Il Commodore 64 alla fine non l’ho avuto. Con la barbie che aveva i capelli del mio stesso colore, quella che ho ricevuto per il Natale dell’87, ci ho giocato ancora per un po’, ma sempre di nascosto. Poi ho iniziato a giocarci un po’ meno, e poi ancora meno e poi un giorno, ma non ricordo quando, non ci ho giocato più. Tutte le mie bambole, anche la bruna, sono finite in una cesta. Sulla mia scrivania, qualche tempo dopo, è spuntato un computer: era un’Amiga 500.

La voglia di giocare con le storie, quella no, non è passata mai.

Crescere

Alla mia amica adesso le Barbie non piacevano più Le piaceva invece un ragazzo, Vincenzo Iannelli, che era seduto nella fila dietro la nostra

Confidenze

«Ieri ho avuto le mie cose», mi disse senza aggiungere altro e si portò le mani sulla pancia. Lo disse come se fosse un discorso per grandi e io fossi solo una bambina. Non chiesi altro

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 ??  ?? In alto, Viola Ardone a tredici anni Qui sopra, il Commodore 64 e, a destra, la Barbie bruna
In alto, Viola Ardone a tredici anni Qui sopra, il Commodore 64 e, a destra, la Barbie bruna
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