Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Le feste anarchiche dei sessantottini
Solo dopo molte insistenze i miei genitori mi concessero il presepe, con cui giocavo
Acasa nostra il Natale non si festeggiava. I miei genitori erano figli del Sessantotto, le ricorrenze qualcosa cui non dare importanza. Poi però siamo nati noi: prima io, e dopo due anni e mezzo mio fratello. Finché un giorno, dopo lunghe richieste, un grosso presepe di sughero fece ingresso in casa. Io in realtà avrei preferito fare l’albero, ma era meglio non protestare: il rischio era di vedere annullata anche quell’altra concessione.
All’epoca dovevamo traslocare da una casa all’altra, e nel frattempo abitavamo da nonna Elodia, la madre di papà, la cui casa dava sui giardinetti di via Ruoppolo, dove in quegli anni veniva allestita una processione di bancarelle che vendevano luci e lucette, festoni e ogni genere di addobbi. Cominciammo così a collezionare pastori, il nostro presepe diventava ogni anno più ricco. Era come un mondo in miniatura, con ogni genere di botteghe: avevamo cestini di uova e salsicce, bacinelle con dentro le cozze, un pizzaiolo col forno a legna. C’erano il muschio e un piccolo ruscello, un largo spiazzo davanti alla grotta e alte cime su cui si inerpicavano solo i pastori più impavidi.
Il nostro, però, era un presepe anarchico e continuamente profanato: ci giocavamo come se fosse una casa delle bambole. Alcuni personaggi, poi, erano a doppio, altri mancavano del tutto: due Madonne, nessuno dei Re Magi, Giuseppe senza un braccio.
A Natale mia madre mi metteva un vestito scozzese con il collo a smerlo, sopra un gilet che sua madre, l’altra mia nonna, aveva fatto a maglia, e sotto le ballerine di vernice nera, quelle col cinturino che facevano rumore sui pavimenti quando camminavo. Mia nonna Elodia, invece, lo trascorreva in vestaglia, come quasi tutti i giorni della sua vita da quando aveva smesso di insegnare, ma era comunque elegantissima. Un anno trovammo sotto l’albero una gabbietta con dentro due pulcini, ma il giorno dopo uno era già morto. Poi ricordo uno zainetto di peluche a forma di panda, con cui volevo addirittura andare a dormire; ma al mito di Babbo Natale ho dovuto rinunciare abbastanza presto: avrò avuto sette anni quando, durante la notte dell’Epifania, scorsi la sagoma di mia madre sistemare la calza ai piedi del mio letto. Mi misi a sedere e sussurrai nell’oscurità: ma allora non esiste, allora sei tu? Sono io pure Babbo Natale, ma a tuo fratello non lo devi dire. Mantenni il segreto.
Quindi aspettavo il Natale principalmente per mangiare le paste cresciute, l’unica portata di mio gradimento. Stretta in una delle sue vestaglie, mia nonna mi mostrava la pasta coperta a lievitare. Io facevo per toccarla, lei spostava la mia piccola mano e diceva: ancora un altro poco, non è ancora pronta. Poi tirava fuori dallo sportello in basso un pentolino, ma non era un pentolino qualsiasi: lo usava solo per friggere le paste cresciute, era piccolo e tutto annerito, lo cacciava solo una volta l’anno e credo l’avesse ereditato, si tramandava di genera zione in generazione. Mi chiedo adesso che fine abbia fatto. Secondo mia nonna Elodia la pasta andava fatta crescere, ci voleva tempo, e il pentolino in cui friggerla doveva essere sempre lo stesso. Prima che l’olio fumasse prendeva col cucchiaio un po’ di pasta e la buttava dentro a sfrigolare; uno, due e tre cucchiai, poi girare la pasta cresciuta dall’altro verso, che intanto si era dorato, e tirarle fuori via via che si scurivano. Ne faceva alcune con le acciughe, ma io le volevo semplici: solo la pasta appena fritta e un po’ di sale.
Zia Marina non era sposata e viveva con mia nonna; lei l’albero lo faceva, un piccolo abete vero, contro il quale io e mio fratello per sbaglio andavamo a urtare giocando. Le decorazioni erano di vetro, quel vetro sottilissimo e colorato, così capitava che a ogni botta tintinnassero fra loro o che, qualche volta, diventassero mille pezzi sul pavimento. Allora apriti cielo! La zia urlava di stare attenti e mia nonna, armata di scopa e paletta, correva a raccogliere i vetri.
Intanto, zia Marina sbuffava perché i regali che le facevamo erano sempre da cambiare. All’epoca, anima candida, non potevo comprendere cosa volesse dire fare acquisti nel periodo delle feste. In centro regna un clima da fine del mondo, tutti si muovono nervosi e all’impazzata: il 24 mattina si è in cerca dell’ultimo regalo e il 27 di nuovo in giro per cambiare questo o quello: taglie sbagliate, oggetti inutili, carte e nastri per una quantità di immondizia che manderebbe in crisi anche il sistema di gestione dei rifiuti più efficiente.
Sembra comunque che le festività natalizie rappresentino un momento delicato per quanti sono inclini alla nostalgia, e questo perché il Natale che vorremmo è sempre diverso da quello che abbiamo o che abbiamo avuto. Forse gli unici a goderselo davvero sono quelli che al Natale vengono iniziati presto, e che quindi hanno voglia di perpetrare la tradizione. Mi piacerebbe passarlo su un volo intercontinentale prenotato ad hoc: niente auguri forzati o parenti coi quali si ha poco da dire.
Il mio Natale di oggi è diverso dal passato: già alla fine di novembre addobbo un albero di tre metri, per compensare quello che non ho avuto da bambina. Con mia figlia apriamo ogni giorno una casellina del calendario dell’avvento, ne escono ciondoli e piccole bambole, oppure cioccolatini. Ci piacciono le luci e le ghirlande, scriviamo una lettera a Babbo Natale con dentro tutti i suoi desideri.
L’anno scorso ai suoi giocattoli ho aggiunto un libro musicale dello Schiaccianoci, con la copertina rossa e le scritte dorate, perché il Natale, forse, non è che una favola che raccontiamo e che continuiamo a raccontarci: non ci si libera di quello della propria infanzia ma bisogna far sì che quello dei più piccoli sia bello. Perché anche da grandi se lo ricorderanno.
Mangiatoia
Veniva continuamente profanata: ci comportavamo come se fosse una casa delle bambole. Alcuni personaggi, poi, erano a doppio
” A tavola Aspettavo il 25 principalmente per mangiare le paste cresciute, l’unica portata di mio gradimento Mia nonna mi mostrava la pasta