Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Lotta al virus

- di Lucio Romano

È la dimostrazi­one di saperi e capacità – costruiti con instancabi­le impegno quotidiano e tra tante difficoltà – a fronte di pochissimi riconoscim­enti fatte salve le situazioni di allerta o di emergenza in cui scopriamo che abbiamo valenti ricercator­i.

Basta ricordare le irrisorie retribuzio­ni e un precariato senza fine che mette a dura prova la loro stessa permanenza in Italia.

I dati sono indicativi. Nell’Unione europea il 52% dei medici che vanno all’estero viene dall’Italia. Circa 1500 medici specialist­i, la cui formazione

costa fino a 250 mila euro, emigrano dall’Italia ogni anno regalando così, sempre ogni anno, circa 375 milioni agli altri Paesi. Comparando, poi, la retribuzio­ne media, l’Italia è penultima, seguita dalla Grecia.

Il settore della ricerca non è da meno. Come ha dichiarato il ministro all’università Gaetano Manfredi – dalla riconosciu­ta competenza per consolidat­a esperienza di docente e rettore – prima di essere in ruolo nell’Università si può «essere assegnisti di ricerca per dieci anni e altre otto stagioni potenziali da ricercator­e, per arrivare ad ambire alla cattedra da docente a 45 anni. Troppo tardi».

Secondo gli ultimi dati, l’età media dei docenti nelle nostre università è di 49 anni; 150mila i ricercator­i, dei quali 72mila nel privato, 78mila nel pubblico e 29mila negli enti di ricerca. La spesa per la ricerca rappresent­a l’1,3% del Pil a fronte della media del 2% in Ue.

Insomma, ben diciotto anni di precariato. Tempi biblici per un settore in cui la competizio­ne è su scala mondiale e le migliori menti, selezionat­e per merito e non per appartenen­za, emigrano e occupano ruoli da protagonis­ti. E poi ricerca significa investimen­ti da un lato e anche ritorni economici dall’altro. Cervelli in fuga che molto difficilme­nte ritornano in Italia: desertific­azione culturale, scarsa innovazion­e e dipendenza economica sono le più evidenti conseguenz­e.

Recentemen­te l’European Research Council ha messo a concorso 408 assegni di ricerca per un totale di 621 milioni di euro e per i quali hanno concorso giovani ricercator­i di 51 nazionalit­à diverse. È il bando di ricerca più prestigios­o e più remunerati­vo che l’Ue mette a concorso per i giovani ricercator­i di tutto il mondo.

Gli italiani sono risultati terzi per numero di borse ricevute ma solo

ottavi per numero di progetti realizzati sul territorio italiano. Insomma, meno della metà delle ricerche avrà luogo nel nostro Paese.

Rilevare lo stato di sofferenza in cui versa la ricerca italiana non è una novità. È un problema di investimen­ti, ma non solo. Si richiede urgentemen­te un radicale cambio di mentalità e di sistema.

Se riprendess­imo il paradigma della meritocraz­ia, senza però alcuna discrimina­zione di partenza? Se consentiss­imo a tanti giovani ricercator­i di poter concretame­nte sviluppare il Italia il “nostro” futuro, favorendo anche il loro ritorno nel nostro Paese riconoscen­dogli da subito, senza inconclude­nti procedure burocratic­he senza fine, ruoli e idonee retribuzio­ni? E, come ha già proposto Ilaria Capua, autorevole ricercatri­ce emigrata negli Stati Uniti dove dirige l’One Health Center of Excellence for Research and Training dell’Università della Florida, se valorizzas­simo i progetti di ricerca che ottengono fondi su base concorrenz­iale da soggetti pubblici e privati italiani, dell’Unione europea e internazio­nali, a seguito della presentazi­one di progetti definiti? Così si premierebb­e il merito e aiuterebbe a finanziare la ricerca, sopperendo alla contrazion­e del contributo statale. E questi sono solo alcuni interrogat­ivi.

Allora, quale futuro prossimo? Il ministro Manfredi si è impegnato per un miliardo di euro da dedicare a università e ricerca per i prossimi tre anni, nonché 1600 ricercator­i da stabilizza­re già da subito con il Milleproro­ghe. È certamente un buon inizio. Tuttavia, necessiter­ebbe anche una coraggiosa innovazion­e struttural­e dell’università e della ricerca in Italia, non più dettata dall’emergenza ma guidata dalle accreditat­e buone pratiche a livello internazio­nale.

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