Corriere del Mezzogiorno (Campania)
L’eterna altalena tra allenatori cafoni e di mondo
Trenta punti e l’undicesimo posto in classifica: questo di tanta speme oggi mi resta. D’accordo, in morte del sogno Napoli – scudetto, Champions e quant’altro vagheggiato in estate – non c’è bisogno di scomodare Francesco Petrarca che sognava approdi ben più nobili per i suoi versi. Però i numeri sono impietosi e, soprattutto, incontrovertibili: teniamo ancora in serbo una pallida illusione che – speriamo non sia così – già domani rischia di diventare ancora più esangue se l’Inter facesse valere la sua feroce determinazione nella prima semifinale di Coppa Italia.
Ma non è di questo che voglio parlare: abbiamo una straordinaria cronista sportiva, Monica Scozzafava, la quale conosce il calcio decisamente meglio di me che sono soltanto un ultras da salotto. Le lascio volentieri tale incombenza.
Sono altre le cose che mi incuriosiscono nella parabola della squadra azzurra o, per essere più preciso, nell’aura che circonda una stagione scombiccherata come questa. Il tifoso, per sua natura, vive del presente: si abbatte alla prima sconfitta e riprende entusiasmo appena si torna a vincere. Al culto della memoria preferisce la celebrazione dell’istante.
Diciamo che gli stadi, a cominciare dal San Paolo, sono i fortilizi di un moderno epicureismo fondato sulle gesta di undici giovanotti in maglietta e pantaloncini. Ma allora vi chiedo: esiste una città più epicurea di Napoli, dove il futuro è un fastidio e il passato un ingombro? Conoscete un luogo in cui la vocazione identitaria viene imbracciata come un’arma contundente contro ogni sembianza di cambiamento? Lasciamo in sospeso le domande e torniamo a esaminare i numeri: quando è stato esonerato (anche per colpe sue), Ancelotti aveva collezionato quattro sconfitte in quindici partite e la squadra era al settimo posto; Gattuso, in otto match, ha perso ben cinque volte e gli azzurri sono scivolati all’undicesimo gradino della classifica. Eppure il primo è ritenuto responsabile del disastro stagionale mentre al secondo viene concessa qualunque tipo di attenuante.
Perché? Ecco che giunge in soccorso la memoria. Ricordate l’avvento di Rafa Benitez? Bene, allora non avrete dimenticato che grazie al suo appeal internazionale sbarcarono qui talenti come Higuain, Callejon, Mertens, Koulibaly, Albiol e via di seguito. L’allenatore spagnolo, già vincitore in Champions e Coppa Uefa, sostituì Walter Mazzarri un mister di tutt’altra pasta che faceva della passione la sua cifra – e provò a iscrivere la squadra, ma in generale tutta la società di De Laurentiis, in un contesto europeo. E non soltanto sul campo di calcio: visitava musei e luoghi d’arte, partecipava a convegni, mostrava sobrietà e ironia. Insomma, cercò di coniugare il futuro al termine di un ciclo importante ma sostanzialmente incollato al presente. Risultato: divenne ben presto lo straniero incapace di comprendere lo spiritus loci, fu quasi ridotto a scemo del villaggio e infine crocefisso.
Il suo posto andò in dote a Maurizio Sarri che, con i giocatori presi da Benitez, costruì un monumento al calciochampagne e a se stesso, offrendosi ai tifosi come un Masaniello capace di incarnare il loro desiderio di rivolta. Contro chi e contro cosa, poco importa: bastava assecondarne la pancia, proclamarsi napoletano pur avendo campato una vita intera in Toscana e fomentarne il senso di assedio che da sempre abita all’ombra del Vesuvio. Da buon Masaniello, poi, girò le spalle appena le sirene del potere lo blandirono con il loro canto. Oggi allena la Juve e ho detto tutto. Dopo di lui, fu il tempo di Ancelotti, il miglior trainer del mondo per verdetto unanime e trofei conquistati.
Al pari di Benitez, capì subito che un’epoca era tramontata e bisognava costruire il domani oltre la cinta daziaria di un’identità stantia. Ma un po’ per sua mollezza, retaggio di un aziendalismo spinto all’eccesso, e molto, moltissimo per il rigetto di un ambiente che lo considerava un corpo estraneo, seguì l’identica sorte del collega madrileno. Oggi scala la classifica inglese con l’Everton e ho detto tutto. L’arrivo di Gattuso, quindi, ha scandito soltanto l’ennesimo pencolio di quest’altalena che, da una decina d’anni, segna l’alternanza (altro che politica del maggioritario…) tra allenatori «cafoni» e allenatori «di mondo», per dirla alla Totò. E puntualmente mentre i primi assurgono all’empireo, i secondi sono condannati all’inferno. Ovviamente a prescindere dai risultati e dal progetto. Perché Napoli, nel calcio come nell’esistenza d’ogni giorno, è ormai prigioniera di un circuito autoreferenziale che è l’unico a fornirle quelle poche, spesso false, certezze necessarie, tuttavia, per andare avanti.
Così l’identità s’è tramutata in un mostro bicefalo nel quale convivono un senso d’appartenenza straccione, buono a respingere ogni refolo di modernità, e una grottesca aristocrazia del pensiero destinata a convalidare la nostra presunta unicità antropologica. Abbiamo lo sguardo appiccicato al suolo e temiamo che, sollevandolo, finiremmo per incontrare la realtà. Quindi, meglio «cafoni di terra» che «avventurieri di mare». Il futuro è roba che s’appende al filo dell’orizzonte. Noi, invece, difendiamo ancora i panni appesi nei vicoli. E in tal modo collezioniamo turisti, mentre la città migliore naviga in cerca d’altrove. Lontano dall’ergastolo di un eterno presente che, da troppo tempo, ci tiene ammanettati negli stadi e nella vita.