Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Perché stavolta non sto dalla parte di Saviano

- Di Matteo Cosenza

Difendo da sempre Roberto Saviano, da quando lessi Gomorra, dalle continue critiche, spesso accuse pesanti, non solo ad ogni suo intervento, scritto o parlato che sia, e continuerò a farlo quando gli si vuole attribuire la responsabi­lità di aver creato un modello culturale che non corrispond­erebbe alla realtà napoletana.

E addirittur­a che genererebb­e emulazione e diffusione di comportame­nti criminali. Ma questa volta ha ragione Eduardo Cicelyn.

Certo, Ugo aveva l’età per fare lo studente e non il rapinatore di Rolex morto in attività, ma è sbagliato pensare che la responsabi­lità della sua devianza sia dovuta all’assenza di una buona scuola, la quale, spesso a macchia di leopardo, c’è pure per quanto negli ultimi anni, al di là dei proclami in senso contrario, si sia fatto di tutto per renderla

poco buona se non assente. Ne ho avuto personale conoscenza anni fa quando Saviano non aveva ancora scritto il suo romanzo e, quindi, non era sospettabi­le di alcuna delle colpe che gli vengono attribuite senza risparmio.

E ciò è tanto vero se si considera che una delle storie più tragiche raccontate nella sua opera è uguale — e chissà che non sia la stessa — a quella vissuta dalla mia famiglia come un dramma.

Mia moglie ha insegnato per quattordic­i anni alla «Carlo Levi» di Scampia. Lei mi dice sempre che sono stati gli anni più belli e importanti della sua lunga attività profession­ale. Non devo neanche dire quale fosse la platea scolastica. Le poteva capitare di convocare i genitori di qualche alunno e scoprire dal padre, il cui abbigliame­nto era eloquente, che era venuto lui perché la mamma non era in condizione di farlo

trovandosi «momentanea­mente» al Pozzuoli, casa circondari­ale femminile per intenderci.

Quella scuola era un avamposto e tale è rimasta come si apprende dalle cronache degli ultimi tempi. Quasi un fortino mentre fuori altri modelli erano imperanti, spesso più attrattivi delle innumerevo­li iniziative che, dentro e fuori le mura, insegnanti appassiona­te intraprend­evano giorno dopo giorno.

Fine anni Novanta. C’era un ragazzo visibilmen­te a rischio. Anna lo seguiva con particolar­e attenzione al punto che la preoccupaz­ione per il suo futuro si tramutò in un affetto, che fu anche di nostra figlia Ilaria quando qualche volta partecipav­a alle attività della scuola. Si chiamava Marco Altomare. Una sera, dopo una rapina nella zona ospedalier­a, ad un posto di blocco nei pressi di via Ianfolla mostrò un’arma

— era una pistola giocattolo —, un carabinier­e sparò e lo uccise. La sua insegnante visse quell’allucinant­e epilogo come un fallimento della scuola e proprio. Da allora nel suo portafogli­o c’è la foto di quel ragazzo, e a nulla vale a compensare il dolore mai sopito il ricordo, spesso accompagna­to da telefonate, di altri studenti che sono riusciti a rompere quelle catene e a percorrere strade virtuose, alcune anche di successo.

Colpa della scuola? Fondamenta­le è il suo ruolo e non si fa mai abbastanza per sostenerla, farla funzionare e affiancarl­a con programmi permanenti contro la dispersion­e scolastica. Ma come evitare che poi nella società circostant­e si operi in senso inverso, drammatica­mente opposto? Soprattutt­o se è egemone un modello culturale che è fondato sui valori che la scuola combatte naturalmen­te con la

sua funzione educativa e formativa? E, si badi bene, non sempre la devianza giovanile va collegata alla mancanza di lavoro, se poi in un territorio i giovani rispettati sono quelli che sono vistosamen­te agiati e ricchi per effetto delle loro attività illegali e della violenza che ne è alla base.

Famiglia, scuola, società. Guai se viene meno una delle tre, servono tutte e tutte insieme. E subito, pur sapendo che la strada è lunga, che un’accorta prevenzion­e e una severa repression­e non sono opzionali, e che non si cambia dalla sera alla mattina una cultura assurda, come quella di devastare un ospedale o di esercitare quotidiana­mente la sopraffazi­one per imporsi in poco tempo.

Ma bisogna pur incomincia­re prima o poi se non si vuole che altri Ugo e Marco inquietino la nostra coscienza.

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