Corriere del Mezzogiorno (Campania)
«Non chiamateci lebbrosi Un nome che ci ha uccisi più della stessa malattia»
Viaggio tra gli hanseniani di Gioia del Colle nel racconto della scrittrice materana
«Qui non viene mai nessuno a trovarci, figurati se arriva il coronavirus» dice Luisa (nome di fantasia) dalla sua cameretta al secondo piano nella colonia Hanseniana di Gioia del Colle.
Sono circa quarant’anni che lei è lì. In una campagna attraversata solo da una stradina interna e da una larga pineta che gli stessi hanseniani - allora chiamati lebbrosi - piantarono. Era il 1958 quando dall’ospedale Miulli di Acquaviva vennero «deportati» (parliamo di circa 150 casi provenienti da Liguria, Calabria, Sicilia, Puglia, Sardegna) nella colonia-ghetto di Gioia del Colle. Oggi questa struttura ospita pazienti negativizzati, cioè guariti del tutto dalla malattia ma che necessitano ancora di cure soprattutto per lenire il male sociale che hanno subìto. Pazienti seguiti ancora oggi da un personale sanitario eccellente che accoglie i nuovi casi (solo due negli ultimi anni) che arrivano da paesi endemici come l’Africa, il Sud-Est asiatico e i paesi del Mediterraneo orientale.
«Facevamo paura, la gente si portava le mani alla bocca se passavamo noi, non ci volevano vedere per strada, nei loro palazzi, non ci facevano lavorare con loro, i nostri figli, anche se in salute, non potevano giocare con gli altri bambini. Non eravamo dei semplici ammalati, agli occhi della gente eravamo dei posseduti» e dunque dove viveva bene qualche cane randagio, là potevano andare a vivere anche loro.
Ed è proprio a loro che penso in questi giorni di frenetica corsa al riparo dal coronavirus. A quegli uomini tornati vivi e ammalati dalla Guerra che non sono stati protetti dalla società ma incriminati. A quelle donne ammalate perché rimaste al fianco dei mariti. A quei figli che hanno contratto la malattia con l’allattamento o per una precaria igiene. A quegli anni che sono dietro l’angolo di casa nostra e non nell’oscuro Medioevo e che nessuno ricorda, perché nessuno li vede più.
«Mi si nota di più se indosso la mascherina o se non indosso la mascherina?». Come sappiamo tutti (bambini compresi purtroppo) è questa la tendenza del momento. Una intera popolazione, la nostra, che non dispone degli anticorpi sociali adatti per rimanere immune davanti allo spauracchio del coronavirus e che decide di affidarsi ad un sentire altamente fictionario e mediatico del problema. Appurato che l’Italia sta svolgendo egregiamente il lavoro di isolamento e contenimento del virus, mi chiedo, perché continuiamo ad alimentare ovunque il mostro coronavirus come se fosse il nuovo flagello divino? Perché, mi chiedo, la storia si dimentica così in fretta?
Abbiamo davvero bisogno di mostri da combattere per arricchire le nostre giornate? Abbiamo davvero dimenticato le ferite sociali inferte dalla paura delle ipocondrie? Se sì, andate a trovare gli hanseniani così vi rinfrescano le idee.
Una intera popolazione, la nostra, che intimamente festeggia il ritrovato coprifuoco, figlio dei più importanti avvenimenti storici, per sentirsi protagonista di una qualche storia a latere di una storia più grande, più importante, dai risvolti politici economici e sociali purtroppo disastrosi e di cui in verità non interessa a nessuno, perché la cosa più importante è la lotta alla ghettizzazione del virus. È il trionfo del bene sul male. Tutto ridicolo, ovviamente.
Vorrei invece ricordarvi che se proprio vi piace «lottare facile» abbiamo altre malattie batteriche nostre vicine di casa e non meno pericolose che possiamo combattere: Hiv, sifilide, tubercolosi, tutte con focolai attivi nel nostro paese. E pure non le temiamo. Perché? Dunque è proprio vero che il mostruoso è mostruoso davvero solo se ci viene annunciato/ presentato come tale?
E continuo a pensare a loro, agli hanseniani di Gioia del Colle, alla loro vita, alla loro sofferenza, oggi più che mai «degna» di essere ricordata.
Andateli a trovare, andate ad ascoltare le loro storie strazianti, per rimettere a posto le vostre storie personali. Mettetevi nella vita che non si vede, nelle loro giornate silenziose e isolate e rassegnate «non chiamateci più lebbrosi che questo nome ci ha ammazzato più della stessa malattia».
Al tempo del Coronavirus credo sia giusto ricordare come le epidemie, quelle vere e non quelle presunte, abbiano disegnato una storia assolutamente ingiusta e cattiva intorno a noi.
«Ci bruciavano le case per disinfestare l’aria e per protestare contro la nostra presenza», mi racconta un anziano della colonia, «ma anche noi abbiamo protestato, perché siccome eravamo niente, solo mostri, abbiamo dovuto pretenderli i nostri diritti. Quando ci hanno chiusi dentro a questo ghetto con tanto di carabinieri alla porta per non farci scappare, abbiamo fatto lo sciopero della fame, bruciato materassi, rotto i cancelli per andare a bloccare le prefetture e le ferrovie per farci vedere. Eravamo degli esseri umani, eravamo madri e padri, eravamo figli e fratelli strappati alle nostre vite, perché facevamo paura e non perché eravamo contagiosi. Vai a riprendere i giornali che i fatti per come sono accaduti li trovi tutti scritti, parliamo di quarant’anni fa non del Medioevo. La cura definitiva per la nostra malattia è stata trovata in poco tempo, ma la cura per l’ignoranza, quella non si troverà mai».