Corriere del Mezzogiorno (Campania)
PROVA DIFFICILE CHE PUÒ AIUTARCI
Incertezza. È la parola del momento. Ci sovrasta e ci sommerge. C’è incertezza nella ricerca scientifica, negli ospedali, nelle sedi governative, nei mercati che reggono l’economia nazionale e mondiale. Cosa accadrà? Tra un giorno, una settimana, un mese? Ogni previsione appare inconsistente, ancor di più visto che da oggi l’intera Italia è diventata zona rossa. Da storico mi pongo una domanda: lo studio della storia ci può essere utile per superare questa fase di incertezza dettata dall’epidemia in corso? La risposta che mi sono data non è «sì» ma neanche «no». Rispondo «no», perché la storia tutto è tranne che maestra di vita. Se sapessimo imparare dagli errori – o dagli orrori – del passato, saremmo ben diversi e migliori di ciò che siamo oggi. Invece, mi sento di rispondere «si» se studiamo la storia secondo le domande che ci detta il presente, alla ricerca perciò di comportamenti che possono non dico guidare i nostri passi ma farci comprendere i meccanismi messi in opera, le strategie adottate, i vaccini sociali che permisero di superare le grandi difficoltà in momenti di crisi ben più gravi di quelli che stiamo vivendo in questi giorni. Prendo ad esempio la più violenta pandemia mai registrata nella storia dell’Umanità, per morti e virulenza, la peste nera del 1348: il primo atto di una lunga stagione di pandemie che, per l’Europa, si chiuderà solo nei primi decenni del Settecento. La storia è nota: verosimilmente a partire dalla fine del XIII secolo, dalla Cina il bacillo della yersinia pestis, trasportato da pulci e topi, si diffuse distruggendo un terzo della popolazione dell’Eurasia. Quando arrivò in Europa, attraverso il Mediterraneo, era all’apice del suo sviluppo. Toccò quasi tutte le zone, con qualche eccezione straordinaria e quasi inspiegabile, colpendo duramente l’Inghilterra fino a raggiungere la penisola scandinava. Si trattò, a ben vedere, di un cammino lungo, durato diversi decenni per coprire la distanza dal mondo asiatico fino alle propaggini occidentali delle isole britanniche. Oggi va tutto più velocemente: nel 1969 la terribile influenza che è ritornata alla nostra memoria, la cosiddetta febbre di Hong Kong, ci impiegò diciotto mesi per fare lo stesso percorso.
Per il Coronavirus, molto di meno: è stata questione di settimane, se non di giorni. È la globalizzazione, il ritmo frenetico degli scambi, l’accelerazione delle relazioni che consente lo spostamento sempre più rapido di virus e batteri. Però, se anche nel Trecento l’epidemia si espanse su scala mondiale, è perché pure allora il mondo stava sperimentando la sua prima grande globalizzazione, grazie alla trama di rapporti commerciali che collegava l’impero mongolo degli Yuan, attraverso il centro Asia, ai grandi scali mediterranei, come Napoli, Genova e Venezia. Per gli uomini che vissero la peste nera panico e incertezza si fusero, all’unisono. La morte arrivava rapidissima, in due, tre giorni, con sofferenze terribili e effetti talmente visibili da travolgere l’immaginario.
Nel giro di pochi mesi metropoli in crescita esponenziale, come Firenze e Venezia, videro scomparire un terzo della loro popolazione e ci vollero secoli per riconquistare i numeri perduti. La malattia, poi, colpì senza distinzioni e fu davvero una grande livellatrice, mietendo senza pietà ricchi e poveri, nobili e marginali. In mancanza di strutture sanitarie, sul fronte del contagio si spesero gli ordini mendicanti, in prima linea i Francescani, con un sacrificio in vite umane tale che, per rimpinguare l’ordine ormai ridotto al lumicino, bisognò ricorrere all’ordinazione di adolescenti e di anziani, come facciamo noi oggi chiamando in servizio nella nostra sanità pensionati e freschi laureati. La colpa della peste, in mancanza di qualunque forma di approccio scientifico, fu attribuita al volere divino che si scagliava contro un mondo di peccatori e che si manifestava sotto forma di umori maligni, scaturiti dalla terra, per inquinare l’aria e far ammalare gli uomini. E di rimedi non ve ne furono altri se non quelli che ancora usiamo, sebbene con tanta razionalità in più: cordoni sanitari e isolamenti, come quello seguito dai narratori del Decamerone, chiusi da soli a raccontarsi storie, senza contatti con nessuno.
Alla fine, però, la gente del Trecento dalla peste, per quanto terribile e implicabile, ne venne fuori. Questo mondo in bilico che sembrava sul punto di naufragare in maniera definitiva fu capace di scovare in sé gli anticorpi per salvarsi, trovando anche nuovo slancio. Da questa bomba biologica che fu la peste - che uccideva gli uomini ma salvava case, beni, proprietà, ricchezze - stava infatti per nascere una società nuova. Più cinica forse. Oppure più violentemente superstiziosa, perché non tutto, nella storia, corre in maniera lineare.
Però l’Europa nel suo complesso fu in grado di mettere in moto dei meccanismi di resilienza che le permisero di uscire da una lunga fase che chiamiamo Medioevo e di entrare in un’altra della sua storia, con una transizione lenta, spesso dolorosa, ma che marca definitivamente un tempo nuovo, di nuove aggregazioni statali, di un’idea diversa di finanza e di economia, di una cultura che rompe col passato e si immerge con sguardo rivoluzionario nella lettura dei classici, momento che chiamiamo Umanesimo. E con, d’altra parte, la crisi delle istituzioni che avevano definito i secoli precedenti, l’impero e il papato, che anch’essi dovettero adeguarsi al mutamento in corso.
Allora, se nel parlare delle incertezze di oggi dobbiamo rivolgerci al passato, qual è l’unica lezione che possiamo trarre? Che anche uno shock così violento come un’epidemia può, paradossalmente, trasformarsi in opportunità. Una risposta che vale per allora come per ora. Diceva il filosofo Edgard Morin ogni crisi è capace di «scatenare la ricerca di soluzioni nuove, e queste possono essere sia immaginarie, mitologiche o magiche, sia, al contrario, pratiche e creatrici». Insomma, ora c’è incertezza. C’è paura. C’è una fase spaventosa di brusca frenata della vita economica. Ma se saremo resilienti come lo sono stati i nostri antenati del Trecento, forse verremo fuori da questa prova odierna con uno slancio rinnovato.