Corriere del Mezzogiorno (Campania)
La Metafisica e la «peste» del 1915-18
Tutto comincia con la partenza da Parigi. Volontari, i dioscuri si presentano a Firenze, sede del loro distretto militare. Vi restano per poco. In quel periodo, entrano in contatto i futuristi eretici. Giugno 1915.
È il Decamerone rimodulato ai tempi del Coronavirus. Così la comunità di scrittori, editorialisti e intellettuali del Corriere del Mezzogiorno si ritroverà a proporci, ogni giorno, una loro novella. Perché Covid-19 ha cambiato, lo si voglia o no, i nostri stili di vita. E in certi frangenti un racconto aiuta a far passare la nottata. Riprendiamo lo schema di Boccaccio, ottava giornata: beffe in genere.
Come i giovani raccontati da Boccaccio, che per dieci giorni scapparono da Firenze per difendersi dalla peste nera. Secoli dopo. Inizio del XX secolo. Altri giovani scelsero di isolarsi da una peste diversa: il conflitto del 1915-18. Della loro fuga oggi voglio parlarvi.
Tutto comincia con la partenza da Parigi. Volontari, i dioscuri si presentano a Firenze, sede del loro distretto militare. Vi restano per poco, alloggiando nella casa di zio Gustavo. In quel periodo, entrano in contatto i futuristi eretici. Giugno 1915. I dioscuri arrivano a Ferrara, dove si fanno dare l’incarico di scritturali. Si stabiliscono in una casa insieme con la madre. Conoscono un importante poeta crepuscolare. Diventano amici del Marchesino Pittore. E intrattengono rapporti epistolari con i vociani e i lacerbiani, con il Critico cubista, con il Critico dadaista, con il Grande Mercante.
«Io sono abbastanza felice in questa bella e melanconica Ferrara, dove mi ha condotto la fatalità della mia vita», annota il Pictor Optimus. Che si lascia sedurre da quelle vie deserte e larghe come fiumane: uno spartito di assi ortogonali, nel quale, però, ogni unità viene dissolta. Predilige soprattutto alcuni luoghi intimi: gli appartamenti, le vetrine, le botteghe, i portici, i quartieri, l’antico ghetto. Che dire, poi, delle vetrine piene di quei dolci «neri bizzarrissimi che nessun vivente mai mangiò o mangerà»? Si tratta di biscotti tagliati, che presentano la «complicata anatomia mineralogica delle loro interiora», simili alle «feci fossilizzate di uccelli disgraziati».
Segretamente metafisica, Ferrara è «come un’Arianna addormentata sotto il sole già più mite». Benvenuti nel santuario dell’immobilità. Sotto i portici, la vita è ferma. Il mondo è colto in un letargo incantato. Si sente il respiro di una bellezza silente, ma inquieta, spettrale. «Un certo senso indefinibile ed inspiegabile alita sulla città, specie in certi punti».
Luogo fantasma, che sembra fatto di aria. A Ferrara, si ha la sensazione di passeggiare in uno scenario disorientante lunare. Nelle piazze e per le strade si percepisce qualcosa di inafferrabile. Una strana follia. Si passeggia tra i portici, e si ascoltano voci indecifrabili. Tra le umide strade del centro, si avvertono richiami lontani; si può indovinare quel che è distante; e intuire addirittura il rumore del mare. Così annota nei suoi taccuini il Pictor Optimus.
Anche suo fratello, l’Hermaphrodito, si dice ammaliato dalla misteriosa combinazione di rigore, di sensualità, di pazzia, di ironia e di fantastico che si ritrova a “Frara”. Lì, in un palazzo nobiliare del centro, abita il Marchesino Pittore che, all’epoca, è iscritto alla Facoltà di Lettere dell’Università di Bologna: dilettante di talento, disegna e scrive. Il Marchesino è solito ricevere i suoi amici in un appartamento non troppo diverso dalle «stanze delle meraviglie»: i diversi ambienti sono pieni di anticaglie, di vecchi libri, di uccelli impagliati, di vasi, di cocci, di collezioni di ventagli, di monete, di pizzi, di tabacchiere, di bastoni. Quegli ambienti ricordano i laboratori degli stregoni al Pictor Optimus. Che confessa Ferrara «mi ispirò nel lato metafisico».
Qualche tempo dopo. Fine marzo 1917. Giochi del destino. Ancora Ferrara. È lì che si ritrova un gruppo di artisti in fuga. Al Pictor Optimus, all’Hermaphrodito e al Marchesino Pittore si aggiunge il Cavaliere errante, partito da Milano e arrivato nella città emiliana l’8 gennaio 1917, per essere subito trasferito al distaccamento di Pieve di Cento.
Agli inizi di aprile, al Pictor Optimus è diagnosticato il disturbo della nevrastenia. Viene ricoverato al neurocomio di Villa del Seminario, a pochi chilometri da Ferrara. Lì gli è assegnata una piccola stanza, dove può continuare a dipingere. Qualche settimana dopo lo raggiunge, per gli stessi motivi, il Cavaliere errante. Il sodalizio tra i due è intenso. Ben presto a loro si aggiungono l’Hermaphrodito e il Marchesino Pittore. Frequenti le visite anche del Poeta crepuscolare. Villa del Seminario diviene così il teatro di dialoghi, di confronti, di scambi di idee.
Per andar via dal dramma della guerra, quel piccolo gruppo si trova nella medesima condizione dei giovani narrati da Boccaccio. Anche il Pictor Optimus, l’Hermaphrodito, il Marchesino Pittore e il Cavaliere errante avvertono il bisogno di sottrarsi a un’altra peste, che si chiama guerra. Sentono la necessità di isolarsi dalle voci di fondo della cronaca: drammi, morti. Quasi per distanziarsi dalle violenze del conflitto bellico, condividono opinioni su opere d’arte e su libri. Insofferenti nei confronti delle provocazioni dei futuristi e dei cubisti, parlano di archeologia, di storia dell’arte, di letteratura, di filosofia. Nietzsche e Weininger, Schopenauer e Verne. Interi pomeriggi sono dedicati a dotte discussioni di Pinocchio.
Che darei per poter spiare quegli artisti mentre si scontrano e si confrontano, progettando rivoluzioni estetiche e inventando mondi possibili.
Anche per allontanarsi dal sangue del presente, quei giovani si fanno beffa della realtà, ponendo le basi – lì, nel neurocomio della Villa del Seminario – per un’avventura poetica straordinaria, tra i più appassionanti momenti nella storia delle avanguardie europee. Da metà aprile a metà agosto del 1917: in quei tre mesi nasce la scuola metafisica. Anche se il Pictor Optumus dirà sempre, con la sua proverbiale arroganza non priva di autoironia: «La Metafisica c’est moi». Non un movimento, ma un rassamblement in cui si ritrovano alcuni tra i più grandi solitari dell’arte italiana, accomunati dalla volontà di portarsi al di là dei miti progressisti, per tornare a interrogare memorie lontane, senza nostalgie, né ripiegamenti.
Dietro la sua maschera filosofica, la Metafisica si dà innanzitutto come beffa. Gioco. Profanazione. «Non c’è angolo sordido di mondo che non si lasci trattare come metafisico, e non c’è metafisica che non si lasci trattare come un angolo sordido», si ripetono i fuggiaschi di Villa del Seminario. Il pittore metafisico? È come un criminale che dapprima rassicura la sua vittima e, poi, la colpisce alle spalle, mostrando la realtà spaesandola. Impegnato a infrangere il «rosario continuo dei ricordi», ritrae un universo fantastico, ma privo di fantasmi. Concepisce il surreale come proiezione ortogonale del visibile, facendo convivere il massimo della chiarezza con il massimo dell’oscurità. Isola alcuni elementi (architetture, oggetti, figure, statue) dai loro consueti contesti. E li disloca in altri scenari, caricandoli di significati ulteriori. In tal modo rende insensato ciò che è ordinario. Compone così nature morte, nelle quali regna la «tragedia della serenità». Ogni dato si fa reperto archeologico, avvolto dentro il silenzio. In filigrana, una struggente meditazione. Cosa si cela dietro il mondo? L’assurdo. Un «inspiegabile stato X», risponde il Pictor Optimus.
Come era possibile prendersi gioco di quel che stava accadendo al di fuori di Villa del Seminario? Affidandosi all’ironia, rispondono i giovani metafisici. Considerando il riso come un’epifania paradossale, il doppio dello spleen. Demistificando ogni solennità, ogni mitologia. Dando vita, infine, a una buffoneria di inquietante serietà, a una comicità da circo equestre, a una clownerie in cui il tragico e il grottesco si mescolano.