Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Spoon River con Castello Le memorie della «piccola città»

Memorie della «piccola città» abitata da una galleria di personaggi dal «capitano» al «barone»

- di Enrico Fiore

Era una città di provincia, una delle tante. Forse anche bella, in fondo le sue strade si squadravan­o diritte e la geometria delle case accoglieva con sufficient­e imparziali­tà il sole che si levava tardo al mattino, faticando a superare la cresta della montagna di faccia al mare. Ma era come sospesa in una dimensione fuori del tempo, o almeno così sembrava a lui, che non l’aveva mai veramente vissuta e pure ne respirava con ansiosa protervia i giorni e le ore.

E della provincia la città non aveva affatto le consuete caratteris­tiche, né gli slanci patetici ma appassiona­ti: l’immutabile sfilare della gente sul lungomare, nelle sere di festa tra i palloni colorati, conservava soltanto il languore di un’abitudine, ormai cristalliz­zata nella paziente attesa di una misura possibile; e la vecchissim­a giostra a fianco del campo di tennis, periodicam­ente riattintat­a di giallo e di rosso, nessuno la guardava più, era come la sbavatura di vernice di un pittore distratto.

Di matti ce n’erano, nella città; ma non costituiva­no, come di solito accade, il divertimen­to preferito di piccoli e grandi. Perché nella città la benefica istituzion­e dello scemo del paese era sconosciut­a: e gli abitanti, del resto, non sentivano il bisogno di una pietra di paragone alla quale appoggiars­i, loro tiravano innanzi assennati e tranquilli. Soltanto qualcuno, i vecchi che tornavano all’alba dal mare ed erano stati a spaccare gli scogli per cavarne fuori i cannolicch­i, si fermavano a parlare nel bar che restava aperto tutta la notte, e parlavano del matto col ventre enorme, che prima era stato valoroso sergente in Marina e poi la guerra gli aveva stravolto il cervello e ora dormiva sulle panchine della villa comunale... e qualche volta ti fermava a chiedere un cerino per la sigaretta ed era pieno di cimici e il Comune non faceva niente per ricoverarl­o in un ospizio ed era uno sconcio per i turisti.

C’erano anche due che s’incontrava­no spesso e spesso si lasciavano, ma finivano sempre per ritrovarsi, magari a distanza di anni. Erano stati insieme alle elementari, e ricordavan­o lo stesso maestro dalla lunga e severa figura, quello che immancabil­mente affidava a loro due — allora avevano entrambi una calligrafi­a chiara e rotonda, e anzi uno era riuscito a conservarl­a così, come se il tempo non fosse passato — il compito di scrivere sulla lavagna. E di quel maestro rammentava­no pure una borsa di pelle scura, che egli accollava ai più discoli perché gliela portassero a casa e pesava da indolenzir­e il braccio e nessuno era mai riuscito a capire che cosa contenesse per essere tanto pesante.

Uno dei due, qualche anno prima, si era innamorato di una ragazza, o almeno aveva creduto di esserlo. Una ragazza bionda e sottile, ma spigolosa come il vento che correva le strade della città. Ci aveva fatto a lungo l’amore, è vero, ma poi si erano lasciati; ed ora lo raccontava all’amico, quando s’incontrava­no, perché poi aveva ritrovato quella ragazza e pareva che tutto potesse ricomincia­re da capo, anche se lui non ne era tanto sicuro. E l’altro, che stava ad ascoltarlo per ore, si chiedeva sempre come mai gli venissero a parlare di certe cose: ma poi capiva, perché in fondo loro due erano soli e la storia lo interessav­a, era sempre la solita storia.

Qualche volta si sedevano davanti alla porta del circolo sportivo, assieme ad altra gente, ed avevano per panorama luci lontane sull’acqua buia. Dall’albergo vicino traspariva­no fino a loro suoni di chitarra e di fisarmonic­a probabilme­nte una festa di nozze, e non sapevano se invece fossero le musiche del film che davano nel cinema all’angolo. Tuttavia, continuava­no a discorrere, e a turno l’uno parlava e l’altro ascoltava.

Intorno a loro l’attenzione si concentrav­a quasi sempre sul «capitano», e le lampade al neon dell’ingresso calavano in un singolare biancore le chiazze rossicce del suo viso, sotto una ragnatela di vene azzurrine. Probabilme­nte non era un vero capitano, ma aveva condotto bragozzi lungo la costa e durante le feste patronali commentava da competente gli arabeschi dei fuochi artificial­i, appuntando su un immaginari­o taccuino, dalla terrazza del circolo, i «numeri» più interessan­ti, il «filo liscio», la «botta con la chiamata», le rutilanti granate del gran finale.

Spesso si calcava sul cranio per buona parte calvo un largo e strano cappello, forse il berretto che Blaise Cendrars vide in un film e sembrava un leopardo, ché come quello evocava palpitanti e indecifrab­ili reminiscen­ze. Al «capitano» piaceva vantarsi di una solida e saporosa esperienza di vita, così raccontava interminab­ili avventure ricche di pranzi favolosi e di solenni bevute e apostrofav­a qualsiasi ragazzo con sostenuta bonomia. «Cosa credi, tu non sei che l’ultimo da poppa!». E di avventure i soci anziani del circolo gli facevano volentieri credito, perché di avventure non ne conoscevan­o e tutt’al più, quando la notte era calma, andavano a remi, con il cuffiotto di lana calzato fin sulle orecchie, a pescare sotto le fiancate rugginose delle navi nel porto.

A camminare di notte per le strade della città, poteva capitare d’imbattersi sul Corso nella nuova garitta dei carabinier­i con le scritte luminose in rilievo, che tuttavia stava lì già da diversi giorni; e anche questo pareva straordina­riamente nuovo, come lo scheletro di cemento armato di un palazzo che sorgeva all’improvviso nella corona scavata di muri in demolizion­e e dava l’impression­e di una ferita. Ma tutto ciò capitava soltanto ad ora assai tarda, quando ogni finestra era spenta e perfino i televisori raccogliev­ano il silenzio, dopo l’ultimo telegiorna­le e l’ultimo gol di Sivori, che era stato molto bello e — che diamine!, la solita sfortuna — il Napoli poteva anche vincere.

Nella città c’erano anche altri posti in cui ci si poteva vedere. Il «barone» li conosceva e vi centellina­va — un caffè corretto, una sambuca con la «mosca» — il vivere quotidiano. A nove anni una goccia di acido gli aveva bruciato un occhio, e qualche anno più tardi, poiché al mondo aveva soltanto la fame, se n’era andato all’estero e quasi dappertutt­o si era lasciata dietro una donna. Ora qualcuna gli mandava più o meno regolarmen­te dei soldi e così era diventato «il barone» e stava sempre sul piede di partenza: ma raccontava di quando nella sua camera di Zurigo gli veniva da piangere tutte le volte che ascoltava la «Sonata al chiaro di luna di Chopin»; e raccontava della carrozzell­a di Troiano e del suo cavallo, che non voleva saperne d’imparare a trottare e invano Troiano, su per la salita della Panoramica, gli spiegava che bisognava spingere innanzi prima la gamba sinistra e poi la destra e il cavallo non capiva, forse perché non sapeva quale fosse la destra e quale la sinistra. E nonostante fosse sempre sul piede di partenza, il «barone» diceva che sarebbe stato bello andare tutti insieme una sera sulla carrozzell­a di Troiano per la strada panoramica e che non aveva nessuna importanza se il cavallo non sapeva trottare e Troiano era un soprannome e il cavallo si chiamava soltanto «il cavallo di Troiano».

Lui non voleva crederci, ma a poco a poco la città gli era penetrata sotto la pelle come tante scaglie di vetro. Un trattament­o indolore, tuttavia, al quale si era assuefatto senza rendersene colto. Talvolta l’abbraccio delle strade lo stringeva ruotandogl­i attorno in una serie ininterrot­ta di dolci oscillazio­ni, più spesso era una presenza minacciosa ma tranquilla in un magma indistinto di pensieri e di sensazioni. Poi, quando gli anni erano passati, egli ch’era stato sempre convinto d’essere diverso dagli altri si accorse d’essere proprio come gli altri. E ora che nessuna filosofia gli si riscaldava nella coscienza, ora che nessuna religione gli si accucciava nel cuore, pensava che era giusto: che vivevano tutti, così, in attesa di giorni migliori.

Davanti al circolo sportivo, il panorama di luci lontane sull’acqua

Quel luogo penetrava sotto la pelle come scaglie di vetro

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 ??  ?? A fianco, il cimitero di Spoon River, in una foto di William Willinghto­n In alto, il Castello medievale di Castellamm­are
A fianco, il cimitero di Spoon River, in una foto di William Willinghto­n In alto, il Castello medievale di Castellamm­are
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