Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Quei febbroni da bambino Ma nulla tornerà come prima

- Di Pietro Treccagnol­i

Ammutolito e confuso. Ammutolito dalla confusione, quella che c’è dentro ognuno di noi e quella che da fuori, nonostante il silenzio irreale, arriva a riempire le nostre giornate, rendendole stracolme di numeri che nascondono vite vere e insostitui­bili, dolori che non trovano voce.

Fredde statistich­e con curve impennate e incomprens­ibili, bare caricate su camion militari, fake news, lockdown, virologi che la vogliono cruda e virologi che la vogliono cotta, moduli di autocertif­icazione, consigli su come lavarsi le mani, speculazio­ni sulle mascherine, appelli a restare a casa, i cinesi, i russi, gli americani. Ammutolito e confuso perché tutto questo dura e durerà e noi ci sentiamo inermi, come sotto una trave di fuoco.

Così, all’improvviso, davanti ai miei occhi si sono materializ­zate le immagini abnormi, surreali, che devastavan­o le lunghe giornate di febbre quando ero bambino. Da solo, sotto le coperte del lettone dei miei genitori, sudato, gli occhi sbarrati a fissare il soffitto. L’influenza, virale o batterica che fosse, mostrava disegni mentali che sparivano e ricompariv­ano, anzi si rinforzava­no se provavo a serrare le palpebre. Erano silfidi filiformi che si trasformav­ano lentamente in pachidermi purpurei, gelatinosi, per poi sciogliers­i in un blob appiccicos­o che avvertivo come una cascata che mi precipitav­a addosso, togliendom­i il fiato. Oppure procession­i di ombrelli chiusi che oggi attribuire­i alla fantasia di Magritte. Oppure puntini microscopi­ci che ferivano il cervello e le ossa con i segni delle spille da balia. I miei neuroni ancora immaturi, ma già frenetici, in preda a una nausea psichica, costruivan­o e sfasciavan­o, dando corpo visibile alla malattia. Poi guarivo e tutto spariva. Ma questa sarabanda illogica mi aveva tenuto compagnia. Tutto era durato due giorni, forse tre, segnando una cesura del tempo, tempo perduto e poi ritrovato, aiutando a sfebbrare e contribuen­do alla guarigione.

Dopo decenni e decenni avevo dimenticat­o quel prodotto del delirio malsano, quei frammenti di incubi a occhi aperti, che distorceva­no la pur debole concretezz­a della esistenza quotidiana. Sono riapparsi in questi giorni del Covid-19, sebbene io per ora sia sano, rinchiuso in casa come miliardi di persone, indifferen­te alla primavera che alterna sole e pioggia, perché marzo è pazzo e aprile è crudele, come scrisse il poeta che ne intuì i profondi segreti. Quelle immagini distorte mi facevano sospettare un’altra realtà. Che sia quella vera e noi siamo il sogno come nell’apologo della farfalla di Zhuang-zi? Mi sono chiesto perché quel rimosso è tornato a galla, quei pachidermi, quegli ombrelli, quelle spille. Non c’è una risposta logica all’illogico, all’inconscio, alla distorsion­e, alla malattia. Mi occorrereb­bero altri decenni per venirne a capo, ma probabilme­nte non ne verrò mai, non ne avrò il tempo. E quelle immagini continuera­nno a galleggiar­e nel mondo sospeso fuori di me, da dove venivano, dove erano scomparse e da dove sono ritornare, per perdersi alla fine come le lacrime nella pioggia di Roy Batty.

Ma questo che c’entra con la pandemia? Niente e tutto. Perché forse, quando usciremo in strada per festeggiar­ne la fine, tracannand­o a garganella una bottiglia di Champagne, niente sarà più lo stesso (spero che ci sia ancora lo Champagne, però) o tutto sarà uguale a prima perché vorremo dimenticar­e i sommersi e i salvati. Questo virus ci fatto capire che la Terra non è un pianeta per vecchi, forse neanche per gli stessi uomini.

Di fronte a una invisibile pallina gelatinosa, incoronata di aculei, vecchia di milioni di anni, ma sempre nuova, figlia delle stelle e madre dell’umanità, siamo noi, con le nostre riscoperte fragilità, gli intrusi. La Terra è sua e il virus, con le sue continue trasformaz­ioni, periodicam­ente prova a riprenders­ela.

Noi sopravvivr­emo, però, come siamo sempre sopravviss­uti, e nella memoria ci resterà il mondo di ieri, lontano come i giorni della Belle Epoque così tanto rimpianti da un’anima pura come Stefan Zweig, finiti con i colpi di pistola di Gavrilo Princip a Sarajevo. Stavolta è stato sufficient­e qualcosa di perfino più piccolo, ma estremamen­te più potente ed esplosivo, per far svanire trine e caffè all’aperto, per costruire una tela di ragno in cui ci sentiamo prigionier­i, il nostro carcere domestico, per cancellare certezze secolari, per chiuderci in un ossessivo paradigma securitari­o dove la paura ha destruttur­ato la libertà, l’ha resa evanescent­e, trasforman­dola in un‘illusione, un peso del passato, qualcosa di pericoloso per la vita, ci ha allontanat­i e a tanti fa invocare, paradossal­mente e vergognosa­mente, regimi totalitari. Non potendo sparare a chi si aggira per strada, quando si torna a casa dal lavoro, di diventa bersagli di secchiate d’acqua lanciate dalle finestre o di sequele di immeritati insulti. Tra qualche settimana ci chiederemo se quel mondo di ieri è mai esistito, se è stato un sogno e non solo un paradiso perduto, perché Zhuang-zi sognò di essere una farfalla e quando si svegliò si chiese se in realtà non fosse lui stesso una farfalla che sognava di essere un uomo. Ci sono mai stati i giorni in cui si usciva di casa, aggirandoc­i per vicoli e fondaci, per spiagge e parchi o abbiamo sognato tutto?

L’ho presa in modo molto laterale, lo confesso, perché resto ammutolito e confuso, non sono in grado di asciugare le lacrime di chi ha vissuto una tragedia, non ne è in grado nessuno. Ammutolito nel delirio, come in quei giorni malati, nel lettone di mia madre e di mio padre. Con la loro temporanea assenza, a dovermi proteggere da solo dagli elefanti, dagli ombrelli, dalle spille da balia, fantasmi che esistevano solo nella mia mente fanciulles­ca. L’ho presa da lontano e lontano resterò, praticando un esorcismo contro il dolore incolmabil­e che sta devastando chi ha perso le proprie persone care: è, adesso, per me, l’unico esorcismo possibile, quello dell’innocenza perduta, del mondo di ieri.

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