Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Quei febbroni da bambino Ma nulla tornerà come prima
Ammutolito e confuso. Ammutolito dalla confusione, quella che c’è dentro ognuno di noi e quella che da fuori, nonostante il silenzio irreale, arriva a riempire le nostre giornate, rendendole stracolme di numeri che nascondono vite vere e insostituibili, dolori che non trovano voce.
Fredde statistiche con curve impennate e incomprensibili, bare caricate su camion militari, fake news, lockdown, virologi che la vogliono cruda e virologi che la vogliono cotta, moduli di autocertificazione, consigli su come lavarsi le mani, speculazioni sulle mascherine, appelli a restare a casa, i cinesi, i russi, gli americani. Ammutolito e confuso perché tutto questo dura e durerà e noi ci sentiamo inermi, come sotto una trave di fuoco.
Così, all’improvviso, davanti ai miei occhi si sono materializzate le immagini abnormi, surreali, che devastavano le lunghe giornate di febbre quando ero bambino. Da solo, sotto le coperte del lettone dei miei genitori, sudato, gli occhi sbarrati a fissare il soffitto. L’influenza, virale o batterica che fosse, mostrava disegni mentali che sparivano e ricomparivano, anzi si rinforzavano se provavo a serrare le palpebre. Erano silfidi filiformi che si trasformavano lentamente in pachidermi purpurei, gelatinosi, per poi sciogliersi in un blob appiccicoso che avvertivo come una cascata che mi precipitava addosso, togliendomi il fiato. Oppure processioni di ombrelli chiusi che oggi attribuirei alla fantasia di Magritte. Oppure puntini microscopici che ferivano il cervello e le ossa con i segni delle spille da balia. I miei neuroni ancora immaturi, ma già frenetici, in preda a una nausea psichica, costruivano e sfasciavano, dando corpo visibile alla malattia. Poi guarivo e tutto spariva. Ma questa sarabanda illogica mi aveva tenuto compagnia. Tutto era durato due giorni, forse tre, segnando una cesura del tempo, tempo perduto e poi ritrovato, aiutando a sfebbrare e contribuendo alla guarigione.
Dopo decenni e decenni avevo dimenticato quel prodotto del delirio malsano, quei frammenti di incubi a occhi aperti, che distorcevano la pur debole concretezza della esistenza quotidiana. Sono riapparsi in questi giorni del Covid-19, sebbene io per ora sia sano, rinchiuso in casa come miliardi di persone, indifferente alla primavera che alterna sole e pioggia, perché marzo è pazzo e aprile è crudele, come scrisse il poeta che ne intuì i profondi segreti. Quelle immagini distorte mi facevano sospettare un’altra realtà. Che sia quella vera e noi siamo il sogno come nell’apologo della farfalla di Zhuang-zi? Mi sono chiesto perché quel rimosso è tornato a galla, quei pachidermi, quegli ombrelli, quelle spille. Non c’è una risposta logica all’illogico, all’inconscio, alla distorsione, alla malattia. Mi occorrerebbero altri decenni per venirne a capo, ma probabilmente non ne verrò mai, non ne avrò il tempo. E quelle immagini continueranno a galleggiare nel mondo sospeso fuori di me, da dove venivano, dove erano scomparse e da dove sono ritornare, per perdersi alla fine come le lacrime nella pioggia di Roy Batty.
Ma questo che c’entra con la pandemia? Niente e tutto. Perché forse, quando usciremo in strada per festeggiarne la fine, tracannando a garganella una bottiglia di Champagne, niente sarà più lo stesso (spero che ci sia ancora lo Champagne, però) o tutto sarà uguale a prima perché vorremo dimenticare i sommersi e i salvati. Questo virus ci fatto capire che la Terra non è un pianeta per vecchi, forse neanche per gli stessi uomini.
Di fronte a una invisibile pallina gelatinosa, incoronata di aculei, vecchia di milioni di anni, ma sempre nuova, figlia delle stelle e madre dell’umanità, siamo noi, con le nostre riscoperte fragilità, gli intrusi. La Terra è sua e il virus, con le sue continue trasformazioni, periodicamente prova a riprendersela.
Noi sopravvivremo, però, come siamo sempre sopravvissuti, e nella memoria ci resterà il mondo di ieri, lontano come i giorni della Belle Epoque così tanto rimpianti da un’anima pura come Stefan Zweig, finiti con i colpi di pistola di Gavrilo Princip a Sarajevo. Stavolta è stato sufficiente qualcosa di perfino più piccolo, ma estremamente più potente ed esplosivo, per far svanire trine e caffè all’aperto, per costruire una tela di ragno in cui ci sentiamo prigionieri, il nostro carcere domestico, per cancellare certezze secolari, per chiuderci in un ossessivo paradigma securitario dove la paura ha destrutturato la libertà, l’ha resa evanescente, trasformandola in un‘illusione, un peso del passato, qualcosa di pericoloso per la vita, ci ha allontanati e a tanti fa invocare, paradossalmente e vergognosamente, regimi totalitari. Non potendo sparare a chi si aggira per strada, quando si torna a casa dal lavoro, di diventa bersagli di secchiate d’acqua lanciate dalle finestre o di sequele di immeritati insulti. Tra qualche settimana ci chiederemo se quel mondo di ieri è mai esistito, se è stato un sogno e non solo un paradiso perduto, perché Zhuang-zi sognò di essere una farfalla e quando si svegliò si chiese se in realtà non fosse lui stesso una farfalla che sognava di essere un uomo. Ci sono mai stati i giorni in cui si usciva di casa, aggirandoci per vicoli e fondaci, per spiagge e parchi o abbiamo sognato tutto?
L’ho presa in modo molto laterale, lo confesso, perché resto ammutolito e confuso, non sono in grado di asciugare le lacrime di chi ha vissuto una tragedia, non ne è in grado nessuno. Ammutolito nel delirio, come in quei giorni malati, nel lettone di mia madre e di mio padre. Con la loro temporanea assenza, a dovermi proteggere da solo dagli elefanti, dagli ombrelli, dalle spille da balia, fantasmi che esistevano solo nella mia mente fanciullesca. L’ho presa da lontano e lontano resterò, praticando un esorcismo contro il dolore incolmabile che sta devastando chi ha perso le proprie persone care: è, adesso, per me, l’unico esorcismo possibile, quello dell’innocenza perduta, del mondo di ieri.