Corriere del Mezzogiorno (Campania)
VIRUS, POVERTÀ E LAVORO NERO
L’arte d’arrangiarsi serve ad alleviare l’endemica povertà nel Mezzogiorno: dove in tempi normali è normale la disoccupazione, quindi la povertà. Senza l’arte d’arrangiarsi questi territori sarebbero polveriere esplosive. Ed esploderanno se si continua a stare chiusi in casa e tutto è fermo: da domanda e offerta di beni e servizi all’arte d’arrangiarsi e all’economia del vicolo. Povertà e disuguaglianze aumentano a dismisura persino tra persone abbienti fino a due mesi fa (piccoli imprenditori, commercianti, artigiani ecc.). Il disastro maggiore però riguarda gli «invisibili», esclusi da ogni sostegno governativo. Come trovare un modo istituzionale di aiutarli senza affidarli solo alla beneficenza e solidarietà dei volontari laici e religiosi? Certo si moltiplicano raccolte di soldi e alimenti per non far morire di fame.
E il Governo col «reddito d’emergenza» tenta di fronteggiare altri bisogni (autonomi, spettacolo, professionisti ecc.). Può bastare qualche centinaio di euro una tantum? Quale sufficienza e durata? Bene o male i lavoratori regolari hanno la Cassa integrazione (benché a reddito ridotto). Ma come aiutare i lavoratori in nero, che vivono il massimo di precarietà e di sfruttamento, piaga sociale specie del Sud? «Lavoro nero» però è concetto generico: la casistica è eterogenea e richiede qualche distinzione, anche per graduare l’immoralità di chi se ne serve: i lavoratori in nero lavorano più dei lavoratori regolari senza tutela di legge. 1) Non parlo del «lavoro illegale»: non viola solo le leggi sul lavoro ma ogni legge, addirittura penale. Il Coronavirus impone di perseguirlo con la repressione poliziesco-giudiziaria
supportata dall’intelligence. Repressione urgente perché adesso prospera l’usura e il Welfare della criminalità fa facile proselitismo tra la gente affamata.
2) C’è poi il «lavoro irregolare», dipendente da chi lo sfrutta per maggior profitto: l’esercito delle false partite Iva per eludere le garanzie del lavoro subordinato. È improbabile che questi datori abbiano il pudore di pagare i dipendenti ora inattivi.
3) Differente il «lavoro sommerso» nell’«economia sommersa», detto «lavoro grigio». È l’enorme massa degl’imprenditori evasori fiscali. Si muovono sì fuori ogni regola, ma non sempre sono sfruttatori matricolati. Si sottraggono al fisco dicendo che altrimenti non resisterebbero. Evitano i costosi oneri previdenziali, ma riconoscono di fatto ai lavoratori qualche trattamento regolare (salario, orario, ferie, festività ecc.; non la sicurezza).
4) Impropriamente rientra nel lavoro nero il groviglio di prestazioni lavorative, molte delle quali «autonome»: ambulanti, autisti e parcheggiatori «abusivi» ecc. (non tutti poveri) e quanti vivono d’espedienti escogitati dalla fantasia di chi non ha qualificazione professionale. Anche per questi un sussidio istituzionale
è complicato, talora immeritato.
5) Diverso è il lavoro nero dei cosiddetti «immigrati clandestini». Parlo dei «badanti» (uomini e donne), non degli ipersfruttati in agricoltura e in edilizia, spesso imprendibili. I badanti invece lavorano in nero perché senza «permesso di soggiorno», presso anziani e famiglie (più o meno benestanti), disposte a regolarizzarli. Un atto semplice taglierebbe questa fetta di lavoro nero rimpinguando pure le casse dell’Inps. Senza l’ostracismo della destra razzista, basterebbe un provvedimento del Prefetto nel quale il datore di lavoro, instaurato un regolare rapporto, garantisse il mantenimento dell’immigrato, assumendosene la responsabilità e versando una somma forfettaria (a titolo di sanatoria) proporzionata al reddito familiare.
Proprio nell’attuale catastrofe economico-finanziaria, che cambierà il modo di vivere e di lavorare, nell’immediato la fantasia può incidere sulla realtà inventando strumenti per stanare gli evasori fiscali, far emergere il lavoro nero (abbassando gli oneri sociali) e impostare un grande progetto per l’occupazione in nuovi settori, investendo in ricerca e formazione. Perciò occorre allestire anzitutto un data-base generale, incrociando i dati delle varie istituzioni pubbliche e private (anagrafe, Inps, Istat, agenzie del lavoro, fisco, assicurazioni, banche.). Le quali però, gelose dei propri dati, sono restie a fornirli adducendo la tutela della privacy. Come se la privacy non fosse un’araba fenice, visto che ormai tutti sanno tutto di tutti. Possibile che, nell’era tecnologica e digitale, non si riesca a sapere lo stato lavorativo e patrimoniale di ogni cittadino dotato di codice fiscale e di tessera sanitaria? Il che è stato da tempo realizzato nelle democrazie liberali più avanzate. Peraltro l’incrocio dei dati servirebbe anche a evitare la sovrapposizione degli ammortizzatori sociali, da unificare e destinare ai veri bisognosi. Ma la mancanza di una seria volontà politica e la proverbiale inefficienza amministrativa di Stato, Regioni ed Enti locali impediscono di razionalizzare l’organizzazione, snellire le procedure ed effettuare i controlli delle strutture pubbliche di prossimità. Gira e rigira, il nodo scorsoio rimane l’arretratezza delle pubbliche amministrazioni. Non è forse questo il momento per costruire la precondizione di ripartenza del paese appena il maledetto Covid-19 smetterà, chissà quando, di martoriare la nostra esistenza?