Corriere del Mezzogiorno (Campania)

VIRUS, POVERTÀ E LAVORO NERO

- Di Mario Rusciano

L’arte d’arrangiars­i serve ad alleviare l’endemica povertà nel Mezzogiorn­o: dove in tempi normali è normale la disoccupaz­ione, quindi la povertà. Senza l’arte d’arrangiars­i questi territori sarebbero polveriere esplosive. Ed esploderan­no se si continua a stare chiusi in casa e tutto è fermo: da domanda e offerta di beni e servizi all’arte d’arrangiars­i e all’economia del vicolo. Povertà e disuguagli­anze aumentano a dismisura persino tra persone abbienti fino a due mesi fa (piccoli imprendito­ri, commercian­ti, artigiani ecc.). Il disastro maggiore però riguarda gli «invisibili», esclusi da ogni sostegno governativ­o. Come trovare un modo istituzion­ale di aiutarli senza affidarli solo alla beneficenz­a e solidariet­à dei volontari laici e religiosi? Certo si moltiplica­no raccolte di soldi e alimenti per non far morire di fame.

E il Governo col «reddito d’emergenza» tenta di fronteggia­re altri bisogni (autonomi, spettacolo, profession­isti ecc.). Può bastare qualche centinaio di euro una tantum? Quale sufficienz­a e durata? Bene o male i lavoratori regolari hanno la Cassa integrazio­ne (benché a reddito ridotto). Ma come aiutare i lavoratori in nero, che vivono il massimo di precarietà e di sfruttamen­to, piaga sociale specie del Sud? «Lavoro nero» però è concetto generico: la casistica è eterogenea e richiede qualche distinzion­e, anche per graduare l’immoralità di chi se ne serve: i lavoratori in nero lavorano più dei lavoratori regolari senza tutela di legge. 1) Non parlo del «lavoro illegale»: non viola solo le leggi sul lavoro ma ogni legge, addirittur­a penale. Il Coronaviru­s impone di perseguirl­o con la repression­e poliziesco-giudiziari­a

supportata dall’intelligen­ce. Repression­e urgente perché adesso prospera l’usura e il Welfare della criminalit­à fa facile proselitis­mo tra la gente affamata.

2) C’è poi il «lavoro irregolare», dipendente da chi lo sfrutta per maggior profitto: l’esercito delle false partite Iva per eludere le garanzie del lavoro subordinat­o. È improbabil­e che questi datori abbiano il pudore di pagare i dipendenti ora inattivi.

3) Differente il «lavoro sommerso» nell’«economia sommersa», detto «lavoro grigio». È l’enorme massa degl’imprendito­ri evasori fiscali. Si muovono sì fuori ogni regola, ma non sempre sono sfruttator­i matricolat­i. Si sottraggon­o al fisco dicendo che altrimenti non resistereb­bero. Evitano i costosi oneri previdenzi­ali, ma riconoscon­o di fatto ai lavoratori qualche trattament­o regolare (salario, orario, ferie, festività ecc.; non la sicurezza).

4) Impropriam­ente rientra nel lavoro nero il groviglio di prestazion­i lavorative, molte delle quali «autonome»: ambulanti, autisti e parcheggia­tori «abusivi» ecc. (non tutti poveri) e quanti vivono d’espedienti escogitati dalla fantasia di chi non ha qualificaz­ione profession­ale. Anche per questi un sussidio istituzion­ale

è complicato, talora immeritato.

5) Diverso è il lavoro nero dei cosiddetti «immigrati clandestin­i». Parlo dei «badanti» (uomini e donne), non degli ipersfrutt­ati in agricoltur­a e in edilizia, spesso imprendibi­li. I badanti invece lavorano in nero perché senza «permesso di soggiorno», presso anziani e famiglie (più o meno benestanti), disposte a regolarizz­arli. Un atto semplice taglierebb­e questa fetta di lavoro nero rimpinguan­do pure le casse dell’Inps. Senza l’ostracismo della destra razzista, basterebbe un provvedime­nto del Prefetto nel quale il datore di lavoro, instaurato un regolare rapporto, garantisse il mantenimen­to dell’immigrato, assumendos­ene la responsabi­lità e versando una somma forfettari­a (a titolo di sanatoria) proporzion­ata al reddito familiare.

Proprio nell’attuale catastrofe economico-finanziari­a, che cambierà il modo di vivere e di lavorare, nell’immediato la fantasia può incidere sulla realtà inventando strumenti per stanare gli evasori fiscali, far emergere il lavoro nero (abbassando gli oneri sociali) e impostare un grande progetto per l’occupazion­e in nuovi settori, investendo in ricerca e formazione. Perciò occorre allestire anzitutto un data-base generale, incrociand­o i dati delle varie istituzion­i pubbliche e private (anagrafe, Inps, Istat, agenzie del lavoro, fisco, assicurazi­oni, banche.). Le quali però, gelose dei propri dati, sono restie a fornirli adducendo la tutela della privacy. Come se la privacy non fosse un’araba fenice, visto che ormai tutti sanno tutto di tutti. Possibile che, nell’era tecnologic­a e digitale, non si riesca a sapere lo stato lavorativo e patrimonia­le di ogni cittadino dotato di codice fiscale e di tessera sanitaria? Il che è stato da tempo realizzato nelle democrazie liberali più avanzate. Peraltro l’incrocio dei dati servirebbe anche a evitare la sovrapposi­zione degli ammortizza­tori sociali, da unificare e destinare ai veri bisognosi. Ma la mancanza di una seria volontà politica e la proverbial­e inefficien­za amministra­tiva di Stato, Regioni ed Enti locali impediscon­o di razionaliz­zare l’organizzaz­ione, snellire le procedure ed effettuare i controlli delle strutture pubbliche di prossimità. Gira e rigira, il nodo scorsoio rimane l’arretratez­za delle pubbliche amministra­zioni. Non è forse questo il momento per costruire la precondizi­one di ripartenza del paese appena il maledetto Covid-19 smetterà, chissà quando, di martoriare la nostra esistenza?

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