Corriere del Mezzogiorno (Campania)
«Mi dicono: mi risveglierò? Ed è atroce»
Grazia Ciarafo, infermiera nella sub intensiva Covid dell’ospedale Cotugno: «A Pasqua sarò con i pazienti Soffrono la malattia ma anche tanta solitudine»
Tre figli adolescenti, la
NAPOLI casa da tenere in ordine. Le lezioni on line dei ragazzi e pure qualche dolce da cucinare. «Ragazzi, ma io non sto facendo la quarantena», Grazia poi però cede alle richieste della famiglia (il marito è un militare e a settimane alterne fa smart working) e di sera si mette pure a fare torte. La signora Grazia Ciarafo ha 46 anni e da venti fa l’infermiera. «Da bambina giocavo con la valigetta della croce rossa, la mia vita è andata in quella direzione». Fino ad oggi, reparto Covid dell’ospedale Cotugno, terapia sub intensiva. Come le colleghe con turni che nei giorni scorsi sono durati anche dodici ore.
Che impatto è stato nella sua vita?
«Emotivamente fortissimo. Ma è stata una mia scelta, quindi sono felice di esserci e di far qualcosa per la vita, quella sì devastata, dei miei pazienti. E quando sono stanca, leggo i “pizzini” che mi scrivono durante il giorno e a volte ritrovo il sorriso».
Cosa scrivono?
«Dipende dai casi. Chi sta meglio, mi supplica per avere una tazzina di caffè. Chi ha paura mi implora di chiamare al telefono un familiare. E poi ci sono gli irrequieti che con il casco respiratorio non resistono a lungo e chiedono qualche minuto di tregua. La quotidianità in sub intensiva è una esperienza unica: condividiamo il dolore per un decesso, la disperazione di chi intuisce che potrà essere intubato da un momento all’altro, ma anche la gioia per i piccoli o grandi segnali di ripresa. Il paziente spesso non può parlare, non ci può toccare. E l’unico contatto diventa lo sguardo. Ci fissano cercando di capire se stanno migliorando oppure no. Si aggrappano all’espressione dei nostri occhi».
Che deve essere sempre di speranza.
«Certo, da noi c’è gente che trascorre il tempo in balìa di un virus che da un momento all’altro può mettersi di traverso. Ne vedo tanti che sembra stiano discretamente e poi hanno crisi respiratorie e precipitano».
E cosa succede?
«Il peggio. Chiamiamo il rianimatore e quasi sempre arriva la sentenza: paziente da intubare. Il momento è atroce».
Ce lo racconta? «L’ammalato è cosciente e ha pochi minuti per decidere se farsi intubare o meno. Sa che si addormenterà, non sa bene se e quando si risveglierà. Qualcuno fa resistenza, ma cerchiamo di convincerli. Qualcuno rifiuta. In quel momento la stretta al cuore è forte. Siamo come in una grande famiglia, i lutti e le gioie sono di tutti. Accompagnare un paziente al sonno è tremendo. Però poi quando ce la fanno la festa è grande. Successe per un nonnino di 81 anni, eravamo convinti di accompagnarlo al sonno profondo, l’ultimo. E invece no, è tornato e qualche giorno fa è stato anche dimesso».
Qualcuno rifiuta, ha detto. «Sì, è successo. L’ultimo è stato un medico di un altro ospedale ricoverato da noi. Non se l’è sentita».
E ora come sta?
«Ha avuto ragione, ora sta bene. Aspetta l’esito del secondo tampone per lasciare l’ospedale».
A Pasqua sarà in ospedale?
«Gli ammalati combattono il virus ma anche la solitudine, che in certi casi è peggio. Andrò per il mio turno e poi avrò il tempo per tornare a casa dai miei figli. Anche loro hanno bisogno di me, sono in pena ogni giorno. Sono cresciuta senza madre, so quanto i figli hanno bisogno di un punto di riferimento, quello che a me è mancato».
I pazienti come fanno a comunicare con la famiglia?
«Chi può ci chiede di fare telefonate video, siamo felici di accontentarli. Altrimenti i parenti parlano con noi, con i medici».
Diceva che è stata una sua scelta lavorare nel reparto Covid.
«Lavoro al Monaldi, il primario del reparto, il professore Giuseppe Fiorentino, all’inizio di marzo si è trasferito al Cotugno in area Covid. L’ho seguito senza troppe esitazioni, nel cuore soltanto la preoccupazione forte per la mia famiglia, avevo paura di infettarmi e di contagiarli. Un timore solo iniziale, al Cotugno sin dal primo momento avevamo strumenti di protezione che ci hanno poi consentito di lavorare in tranquillità. Il virus mi fa paura fuori, non in ospedale».
Eppure tanti suoi colleghi, soprattutto al Nord, si sono contagiati. Per non parlare dei medici, molti non ce l’hanno fatta.
«Guardavo in tv le immagini degli ospedali di Milano e di Bergamo, sin dai primi giorni dell’emergenza. Medici e infermieri erano protetti soltanto da camici operatori. Credo che molti contagi si siano verificati per questo».
Un ricordo brutto e uno bello.
«Un signore di mezza età che in tre ore non ce l’ha fatta; bella è la forza dei giovani infermieri arrivati qui senza esperienza: erano spaventatissimi, oggi sono felici di esserci. Nel bene e nel male».
Molti vi definiscono angeli. «Non lo siamo, i pazienti sono eroi. Noi soltanto professionisti responsabili».
Il degente spesso non può parlare, non ci può toccare. E l’unico contatto diventa lo sguardo. Ci fissano e cercano di capire Si aggrappano all’espressione dei nostri occhi
I nuovi arrivati Sorpresa dalla forza dei miei giovani colleghi arrivati qui senza esperienza: erano spaventatissimi, oggi sono felici di esserci Noi angeli?
Gli ammalati sono gli unici eroi