Corriere del Mezzogiorno (Campania)
UNA REALTÀ LONTANA DALLE STATISTICHE
Non ci siamo scambiate le Palme, nel rito sacro e gentile. Ma interrogativi. Sempre gli stessi, in rinnovata intensità. Quando usciremo dalla pandemia? S’inseguono le date: 25 marzo, 3 aprile, dopo Pasqua. No, toccherà attendere maggio. O giugno. Chissà se si salverà l’estate; forse, ma mantenendo cautele. Obbediamo a continui decreti. Del governo, di governatori regionali. S’aggiungono sindaci alla gara di editti precauzionali. Navigando a vista. Spesso sovrapponendosi, talvolta contrastandosi. Qualcuno ha peccato per disavvedutezze; talaltro per comunicazioni intempestive. Capisco tutti. Giustifico meno la perdurante inefficacia nel garantire ai cittadini sussidi sanitari, mascherine, tamponi; e tempestivi aiuti ai più bisognevoli.
Scrutando l’orizzonte lo sguardo s’appunta su ospedali storici ed altri attivati per l’emergenza, seguendo oscillanti cifre di ricoveri e mortalità. Agli scienziati è stata affidata la rotta per orientarsi nel mare delle sofferenze, lutti e disagi d’un popolo. La tv ha offerto celebrità a quelli ritenuti autorevoli per curricula e responsabilità operative. Di taluni viene richiesta la presenza in studio o in collegamento dall’alba alla notte. Ripetono le medesime considerazioni, ripropongono le stesse ipotesi. Mai — e come potrebbero? — dando sicurezze su terapie e scadenze salvifiche. Capisco anche loro.
La pandemia impone che altre e diverse competenze vengano coinvolte nelle valutazioni dei molti scenari connessi. Matematici che elaborino modelli di prospettive, attendibili a dispetto di odierne incertezze. Alcune certezze invece — e malauguratamente! — le indicano gli economisti. Giudicano l’epidemia virale cinese più dannosa di quella finanziaria
del 2008 che dagli Usa infettò l’economia mondiale.
C’è voluto un decennio per uscirne; c’è chi ancora ne soffre i postumi. È purtroppo il caso dell’Italia; segnatamente delle sue regioni meridionali. Trasporti fermi, produzione che crolla, disoccupazione. Da giorni si discute del dubbio angosciante inculcato da The Economist: per salvare qualche vita in più è giusto fermare le maggiori attività d’un Paese mettendo a rischio reddito e qualità di vita di generazioni future? La prima ipotesi, si sa, è quella scelta in Italia. Ma esperti (Prodi, Bini Smaghi, altri) intuiscono che, pur nell’emergenza, se non si riattiva il sistema produttivo mancheranno risorse anche per curare i malati e sussidiare i bisognosi. Una ragionevole domanda: perché si lavora h 24 al ponte di Genova mentre si tengono chiusi altri cantieri?
È triste constatazione che durante e dopo le crisi le conseguenze non colpiscono tutti in egual misura. Riguarda gli Stati, singole regioni, le famiglie. Rifletto su un dato banale: l’obbligo di non uscire di casa per evitare contagi. Prendiamo il caso di Napoli (potrei estenderlo a comuni dell’area metropolitana, ad altri capoluoghi di Campania e Sud). Qui, più che altrove, l’obbligo è vissuto con gradi di sofferenza diversi in rapporto alle situazioni abitative dei destinatari. Tante variabili da famiglia a famiglia, rioni, strade, tipologie edilizie. È vero che i
Censimenti delineano una quasi raggiunta parità tra quantità di residenti e di vani. Un vano per ogni uomo, donna, vecchio, bambino. È statistica. Ma come per la vecchia battuta del pollo in due, non è detto che ogni famiglia disponga di tanti vani quanti ne siano i componenti. Se si sta stretti in casa, e in un vicolo angusto, a rimaner confinati si soffre assai più di chi gode di alloggio vasto e ameno. Intendiamoci. Non voglio giustificare quanti escono e magari affollano strade, con pericolo proprio ed altrui. Sarebbero però necessari sostegni sociali mirati alle fasce familiari più disagiate. Altrimenti c’è rischio che se ne faccia carico la camorra. Lo dichiara — presumo con dati di fatto — il procuratore antimafia Federico Cafiero De Raho.
Dice che la malavita cerca consenso e adesioni distribuendo pacchi alimentari, né si lascia sfuggire occasioni di lucro in ogni spiraglio offerto dalla crisi virale. In Campania la pandemia sta arrecando danni mortali al commercio, ad imprese turistiche, ricreative, ad attività finora riuscite a galleggiare sul mercato con ricorso più o meno ampio al lavoro in nero. Sono altrettanti settori dove i clan potrebbero acquisire nuovi spazi di riciclaggio dell’ingente liquidità conseguita col crimine.
Il procuratore paventa il ritorno a situazioni che si riteneva superate. Se spaventano lui, figuriamoci noi comuni cittadini.