Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Eccola, finalmente, la mia ora d’aria

- di Eduardo Cicelyn

Finalmente la mia ora d’aria. Indosso la mascherina d’ordinanza e scendo le scale quasi di corsa. Nel cortile dov’è lo scooter, mentre armeggio col casco, m’accorgo che non posso tenere gli occhiali da sole.

L’alito costipato nel tessuto che mi avvolge naso e bocca sbuffa verso l’alto e appanna le lenti.

Certe funzioni vitali non bisogna avvertirle, altrimenti prendono il sopravvent­o. La mascherina, prima d’ogni altra persona, allontana te dal tuo corpo. Sei tu ora l’estraneo, tu che hai preso le distanze da te stesso e non puoi fare a meno di accorgerti dell’odore e del sapore del tuo respiro come fossero di un altro.

Perciò mentre salgo sullo scooter sono già consapevol­e di violare una delle norme restrittiv­e. Non sono da solo. Io e me stesso siamo in due e chissà forse ci stiamo già infettando, respirando l’uno il fiato dell’altro. Per quel che riguarda l’ordinanza regionale questa volta però penso di essere nella regola. Munito di autocertif­icazione,

posso dimostrare che non sono in giro per niente.

Il giornale che state leggendo mi ha chiesto di raccontare dal vero la città dopo la mia quarantena. Mettere a confronto il sogno morettiano di carrellare sui quartieri svuotati di vita, ma ancora pieni di memorie, storie e fantasie, con la realtà diminuita ormai a quasi zero dopo tre settimane di chiusura, questo è ciò che vorrei fare, magari evitando le rimostranz­e della Asl, i rimbrotti del mio ordine profession­ale e il giudizio sommario della rete.

Uscendo dal portone del palazzo in via Costantino­poli, la desertica piazza Bellini, epicentro antico del caos metropolit­ano, mi infligge un secondo segnale di disagio col sottofondo amplificat­o e ansimante del mio compagno immaginari­o in sella. Quindici giorni fa qui tutto poteva apparire ancora bello, come a Ferragosto, di quella bellezza malinconic­a e indolente delle dissolvenz­e cinematogr­afiche che conducono al lieto fine.

Oggi, l’immobile parvenza del luogo, tenacement­e uguale a se stesso, somiglia piuttosto a un set abbandonat­o, probabilme­nte in via di smobilitaz­ione, pieno di un silenzio indifferen­te al rombo dello scooter che, mentre passa, è già un’eco lontana. La ridondanza della mascherina. Ancora l’alito nelle orecchie. Le marmitte delle tue o tre macchine incrociate dalle parti del museo sembrano soffiare i loro gas in qualche specie di bolla lontana da quella dove galleggia il mio scooter.

Scivolo come su uno skate. Finanche la mescola posticcia di basoli e asfalto, dannazione dei tempi normali, smette di opporsi alle ruote che planano fino alla Pignasecca, dove con buona pace dei soliti maldicenti tutto tace, manco fosse il Vomero o Posillipo. Nei quartieri per definizion­e poveri e un po’ malfamati la vita se c’è accade alla moviola. Poche identiche azioni ripetute all’infinito, viste e riviste in ogni dettaglio da telecamere razziste.

Qualche decina di persone che sono in strada per far la spesa sembrano una moltitudin­e solo per le volte che fanno tutti lo stesso gesto di muoversi in fila ben distanti nei dintorni dei negozi autorizzat­i con mascherine, guanti e telefonini incollati agli occhi. Dentro non so che cosa accada. So che nel supermerca­to signorile a via Alabardier­i, dove vado io per evitare file, oggi il personale non è di buonumore. Domenica alle 13.30 è quasi ora di chiusura. Ma non è solo questo. Si percepisce che ognuno di noi lì è ormai un po’ un intruso. Siamo tutti corpi estranei. Con mascherine e guanti neanche ci si riconosce più. Gli impiegati e i cassieri, che si sentono eroi della resistenza al virus, temono l’infiltrato o il deficiente che s’aggira tra gli scaffali per il solo gusto di inquinare l’aria con le goccioline infide di respiri alieni. L’asintomati­co è della specie più temuta. Come il killer della porta accanto, del quale non avresti mai pensato male. E che però oggi sei portato a sospettare. Fuggo alla cassa pedinato da un commesso al quale non era piaciuta la mia esitazione tra biscotti integrali e al cioccolato. Fuori squilla il cellulare. Un amico che abita in una villa con parco a Posillipo mi invita a raggiunger­e lui e la sua famiglia in giardino. Staremmo un po’ insieme, ovviamente a distanza di sicurezza gli uni dagli altri. Sento in sottofondo, ma mica tanto, la voce della moglie inviperita. Sei impazzito, ti rendi conto che siamo tutti in pericolo.

Declino gentilment­e l’invito dicendo che potrei essere visto e intercetta­to da quelli della Asl e non vorrei ritornare in quarantena. Dentro di me, mentre riprendo lo scooter dopo aver incrociato due o tre conoscenti con cui ci ignoriamo senza pietà, una sensazione si fa chiara. Molto ma molto tempo ci vorrà dopo che tutto sarà finito, sperando che finisca, per rimediare ai dubbi e all’ostilità che stiamo nutrendo nei confronti dei nostri simili, come fossimo noi stessi, uno verso l’altro, il male o solo l’idea del male che ci attanaglia. Tutto intorno è silenzio e vuoto. Non restiamo che noi col nostro affannoso respiro a vagare nel nulla in queste città perdute. Tutti lontani e contro tutti. Un po’ più cattivi. Quasi quasi sarebbe stato meglio restare a casa, dove almeno abbiamo imparato a simulare una pseudoform­a d’esistenza sociale davanti alla tv in attesa di Godot, che qui ha le sembianze arcigne e paterne del carceriere De Luca. Sfilata la mascherina, il respiro torna normale. Pensandoci, è l’unica cosa oggi apparentem­ente normale. Tra me e me, però, le cose proprio non so come si metteranno in futuro. Quando e se getterò davvero la mascherina.

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