Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Quella fitta al petto, non sarò più lo stesso
Sono uscito di casa, ieri. Sono arrivato all’uscita del mio parco, dove mia madre, tornando a casa dal lavoro, mi ha portato una busta di medicine (ho trentacinque anni e prendo la statina per il colesterolo, e mi erano finite, amen). La strada che dal mio portone conduce all’uscita del parco si snoda su una piccola salita, alla cui fine c’è il viale principale del mio quartiere, arteria trafficatissima (un tempo, almeno) che attraversa alveari di palazzi.
C’era un sole vivo, caldo, giallissimo. L’aria in questi giorni comincia a sapere d’estate, il vento tiepido attraversa le chiome degli alberi fioriti come una promessa
di libertà. Il mondo ci chiama, noi lo sappiamo; durante questo periodo dell’anno le nostre pelli cominciano a domandarci della vitamina D, desiderano esporsi, gli occhi si chiudono di fronte ai raggi del sole e si crogiolano nel tepore.
Infilo i guanti, il giubbotto e le scarpe che, lasciate all’ingresso, uso nelle rarissime incursioni nel mondo esterno. O in ciò che ne rimane. Guadagno la strada e l’asfalto è sempre una scoperta, ogni volta uguale, ma diversa. Irregolare, duro, ruvido. Anche se ai piedi ho un paio di sneaker è come se fossi a piante nude: la privazione delle differenze rende tutto più vivido quando accade, grazie all’immaginazione combinata con il ricordo delle sensazioni comuni. A metà della salita, però, ho avvertito una strana fitta al petto. Un bruciore, come se un insetto mi stesse pungendo sul pettorale. Io sono un bradicardico, mantengo sempre la calma, mai sofferto di attacchi di ansia, panico, cose così. Non sono un freddo, ma resto freddo di fronte alle difficoltà. Eppure la strada si è fatta più stretta, i palazzi più alti. Ho preso le medicine, salutato da lontano mia madre, sono tornato rapido in casa. Il petto è tornato normale. Io forse, dopo tutto questo, non lo sarò più.